venerdì 5 ottobre 2007

Birmania: cosa farà adesso la Comunità internazionale?

La Birmania ormai non fa più notizia. Sempre meno servizi nei tg, articoli che scivolano nelle pagine interne dei quotidiani, eppure questo è il momento delle decisioni da parte della Comunità internazionale.
Le cronache di queste ultime ore ci riferiscono di una situazione tutt’altro che pacificata: l’ambasciatrice Usa facente funzioni, Shari Villarosa, ha dichiarato che la popolazione di Rangoon vive nel terrore, la polizia militare nella notte fa irruzione nelle case e preleva persone, gli arresti finora sono stati circa 6.000. I quotidiani britannici parlano di gulag nel nord del Paese, ma pare che anche a Rangoon l’ex sede dell’Istituto di Tecnologia del governo sia stata trasformata in una prigione dove si troverebbero 1.700 detenuti tra cui 500 monaci e 200 donne. Mentre continuano le defezioni all’interno del regime, non è chiaro se la spaccatura tra il generale Than Shwen e il suo vice, più moderato Maung Ave sia da considerarsi insanabile.
Sul fronte diplomatico il Segretario Generale dell’Onu, Ban Ki-Moon parla della missione dell’inviato Ibrahim Gambari definendola come un “non successo”.
Gli Stati Uniti e i 27 membri della Ue avevano chiesto al Consiglio di sicurezza di prendere in considerazione la via delle sanzioni ma Cina e Russia hanno bloccato una risoluzione sull’argomento. Gli Stati Uniti si sono successivamente mossi in autonomia, il Presidente americano Bush ha annunciato l’inasprimento delle sanzioni economiche contro la giunta militare che opprime la Birmania, ha usato il nome originario del Myanmar rimarcando l’ostilità nei confronti del regime, e la decisione del dipartimento del Tesoro di congelare tutti i fondi e di bloccare qualsiasi transazione finanziaria sul territorio degli Stati Uniti per 14 membri della giunta.
L'Unione europea, dal canto suo, ha chiesto al Consiglio per i Diritti umani dell'Onu, riunito a Ginevra, di «condannare con forza» il governo della Birmania. La Francia, alle prese con il caso Total (il gruppo petrolifero è stato messo sotto accusa dalla magistratura belga, dopo la denuncia presentata da alcuni rifugiati birmani nel 2002, per complicità in crimini contro l’umanità. Avrebbe utilizzato manodopera forzata fornita dalla giunta militare per la costruzione di un gasdotto) resta tra i più fermi sostenitori delle sanzioni. Il Ministro degli Esteri Bernard Kouchner precisa che se venisse deciso di applicarle la Total non ne verrebbe esclusa. L’Ue punta soprattutto ad un intervento nei confronti dei paesi asiatici, tra i maggiori partner commerciali del Myanmar, perché accettino di imporre le sanzioni, solo così le pressioni internazionali avrebbero una qualche efficacia, ma il quadro degli intrecci economici e geopolitici è in questa regione quanto mai complicato.
Prendiamo in considerazione la Cina. La Birmania svolge nei suoi confronti un ruolo ancillare sia sul piano economico sia su quello militare. Il nord del Paese è controllato commercialmente dai Cinesi. La Birmania ha nel proprio sottosuolo il 10% delle risorse mondiali di gas naturale in una regione notoriamente povera di fonti energetiche, le compagnie cinesi hanno ricevuto dal governo birmano quasi tutte le concessioni per lo sfruttamento di gas e petrolio. Dal punto di vista militare l’alleanza tra Cina e Birmania si è andata sempre più rafforzando, la giunta ha ceduto a Pechino l’isola di Coco, nell’Oceano Indiano, sulla quale verrà installato un presidio militare per estendere la sua influenza sul golfo del Bengali. La Cina assieme all’India è il primo fornitore di armi dell’esercito birmano.
La Thailandia compra dalla Birmania più di un miliardo di dollari all’anno di gas naturale, l’India, che tollera mal volentieri le ingerenze cinesi, ha firmato recentemente un contratto per la costruzione di un gasdotto per importare il gas birmano via Bangladesh, Singapore importa sabbia, cemento e altri materiali per l’edilizia.
L’altra potenza che si è opposta in sede di Consiglio di sicurezza dell’Onu alle sanzioni è la Russia. I fattori che giocano in questo caso non sono solo quelli economici, che pure esistono, (la società russa Zarubezhneft Oil Company ha ottenuto l’esclusiva per la ricerca e lo sfruttamento delle riserve birmane offshore e, lo scorso maggio, Russia e Myanmar hanno sottoscritto un accordo di cooperazione nucleare) ma anche di tipo geopolitico. Il mancato appoggio alle sanzioni contro il Myanmar è solo l’ultima dimostrazione in ordine di tempo della volontà di creare un asse russo-cinese che punta a fare dell’Asia il nuovo centro per gli equilibri globali. L’atteggiamento ambiguo della Russia avalla il proposito della Cina di garantire l’impunità ai preziosi generali birmani e riapre la questione del rispetto dei diritti umani anche in vista delle Olimpiadi del 2008. In realtà c’è chi pensa che la “non ingerenza” di Cina e Russia, con gradazioni diverse, risponda anche ad una sorta di immedesimazione con l’atteggiamento repressivo della giunta birmana, si pensi al Tibet o alle scelte autoritarie messe in atto in Georgia o peggio in Cecenia.
La strada delle sanzioni economiche e commerciali sembra dunque in salita e comunque, a queste condizioni, priva di reale efficacia proprio perché, per dirla con Bernard-Henri Lévy, le sanzioni sono inutili se una parte del mondo le applica e l’altra ne approfitta. Eppure nel caso della Birmania l’applicazione unanimemente o a grande maggioranza condivisa delle sanzioni indebolirebbe senza dubbio la giunta militare al potere unica beneficiaria dei proventi dell’economia dato che il 75% della popolazione vive attualmente di agricoltura schiacciata e affamata dalla dittatura.
Il ruolo degli Stati Uniti e dell’Unione europea è quello proseguire con fermezza nei propositi sanzionatori e di fare pressione sugli amici e sui sostenitori economici dei generali birmani. Sempre Lévy suggerisce che le Olimpiadi sarebbero un ottimo argomento. La speranza, come si dice, è l’ultima a morire ma su questo terreno esprimo sommessamente il mio pessimismo.

Segnalo a margine un post del blog TAGLIO BASSO su Olimpiadi e diritti umani.

4 commenti:

Anonimo ha detto...

intanto noi nel nostro piccolo dobbiamo esprimere tutta la solidarietà a chi lotta per la libertà, e noi occidentali che forse diciamo di averla dobbiamo godercela ...

ArabaFenice ha detto...

Caro Luciano, molti si riferiscono agli U.S.A. condannandone la politica "imperialista". Questo è probabilmente vero ma vorrei anche sentire in giro parole di ferma condanna anche per la Russia e la Cina che hanno anteposto i loro interessi economici alla dignità del Popolo Birmano. Ho letto il post sulle Olimpiadi e diritti umani, ti ringrazio per avermelo segnalato. Credo che lo linkerò anche io. Cmq se vuoi partecipare alla nostra iniziativa di bloggers per la Birmania, puoi farlo.
Stiamo scrivendo un post che verrà pubblicato contemporaneamente su tutti i blog aderenti. Questo post è composto da un pensiero per la Birmania scritto da ognuno di noi. Daniele Verzetti il Rockpoeta (www.agoradelrockpoeta.blogspot.com) sta raccogliendo i pensieri di tutti e li unirà in un unico post. Nel suo profilo trovi il suo indirizzo e-mail per inviare il tuo contributo. Cmq puoi visitare il suo blog per saperne di più. Ciao!

Anonimo ha detto...

Caro Luciano,
se permetti ti aggiungo sul piano giuridico internazionale la situazione del MyanMar (ex Birmania):
Cosa può fare la comunità internazionale, e in particolare le sue istituzioni, per porre fine ai massacri perpetrati dal regime dei militari in Birmania, ormai al potere da 45 anni? Non molto! Ma una stretta e continua pressione internazionale contribuirebbe certamente a dare manforte alle forze autoctone per il crollo del regime e aprire la strada del ritorno alla democrazia in un paese che può vantare di aver dato alle Nazioni Unite un Segretario Generale con la nomina di U Thant nel 1961.

“Responsibility to Protect”
Al vertice di New York del 2005, l’Assemblea Generale, riunita a livello di Capi di Stato e di Governo, ha adottato una risoluzione in cui si stabilisce espressamente la “Responsibility to Protect”. I governanti hanno l’obbligo di proteggere il popolo che amministrano essendo loro proibito di ricorrere a violenza, pratiche di genocidio ed altri misfatti. E’ controverso se la “responsabilità di protezione” possa aprire la porta ad interventi umanitari, come quella della Nato in Kosovo nel 1999. A parere di chi scrive, l’intervento umanitario, cioè l’intervento mediante l’uso della forza, deve essere autorizzato dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite (Cds), condizione politicamente impossibile nel caso concreto. Ma anche un intervento unilaterale (da parte di chi?) per provocare un cambiamento di regime sarebbe impensabile, oltre che illegittimo.

Il 12 gennaio 2007 gli Stati Uniti ed altri paesi occidentali hanno proposto una risoluzione al Cds di condanna del regime Birmania. Ma Cina e Russia hanno posto il veto. Anche il Sud Africa ha votato contro e tre Stati (Congo, Indonesia e Qatar) si sono astenuti. L’Italia ha votato a favore della risoluzione. La risoluzione chiedeva la liberazione del leader birmano Aung Sun Kyi, la cessazione degli attacchi alle minoranze etniche e una maggiore collaborazione con l’Organizzazione internazionale del lavoro per porre fine al lavoro forzato. La Cina ha argomentato che la situazione birmana non costituiva una minaccia contro la pace e la sicurezza internazionale e che quindi il Cds non era competente. Si sarebbe trattato di un intervento negli affari interni della Birmania.

Investire della questione l’Assemblea Generale, come è stato proposto, per comminare sanzioni alla Birmania, non è soluzione appropriata. L’Assemblea Generale si è già espressa sulla situazione dei diritti umani in Birmania nel 2006, ma non può decidere sanzioni vincolanti. Non può neppure raccomandarle non avendo competenza in materia, a parte qualche esempio contrario della prassi (risoluzioni che durante la decolonizzazione raccomandavano sanzioni al Sud Africa per la sua politica di apartheid). I Paesi del terzo mondo, inclusi quelli appartenenti alla Community of Democracies sotto leadeship Usa, avrebbero buon gioco nel sostenere che non potrebbero votare una risoluzione illegittima e quindi sarebbe difficilmente raggiunta la maggioranza dei 2/3 necessaria.

Le azioni del Cds e dell’Assemblea Generale sarebbero le più appariscenti. Ma non sono le sole a disposizione della comunità internazionale.

Molteplici opzioni di intervento
Il Segretario Generale delle Nazioni Unite ha inviato un proprio rappresentante nella capitale birmana, che si muove tra mille difficoltà. Un’azione più decisa dovrebbe essere intrapresa dal Consiglio dei diritti umani. Il Consiglio ha il compito di esaminare la situazione dei diritti umani negli Stati membri delle Nazioni Unite ed ha stilato un programma di lavoro (la Birmania è in programma per i prossimi anni). Il Consiglio, di cui attualmente l’Italia fa parte, può riunirsi in sessione straordinaria, come ha già fatto altre volte (Territori palestinesi, intervento di Israele in Libano, Sudan). 17 membri del Consiglio ne hanno chiesto la convocazione e la riunione della sessione speciale è stata fissata per martedì 2 ottobre. Il Consiglio può adottare una risoluzione di condanna e istituire una commissione d’inchiesta, che dovrebbe recarsi in Birmania e fare un rapporto circostanziato.

I governanti che si sono resi responsabili di gravi crimini potrebbero essere sottoposti alla giurisdizione della Corte penale internazionale, sempre che si tratti di crimini internazionali. Ma la Birmania non ha ratificato lo Statuto della Corte e, in questo caso, l’unica possibilità di attivarla è di competenza del Cds. Speranza poco concreta, poiché il veto cinese o di altro membro permanente del Consiglio è sempre in agguato. Ma lo spettro di sottoporre i responsabili a processo penale dovrebbe essere ventilato, una volta attuato il cambiamento di regime, magari mediante l’istituzione di un tribunale penale internazionale ad hoc sull’esempio di quelli già esistenti.

Gli Stati occidentali dovrebbero inoltre valutare attentamente se la Birmania abbia violato la Convenzione sul genocidio del 1948, a causa dei maltrattamenti contro gruppi etnici. La Convenzione consente di convenire lo Stato responsabile di fronte alla Corte internazionale di giustizia. La clausola che ne attribuisce il potere non è stata oggetto di riserva da parte della Birmania e l’instaurazione di un procedimento dinanzi alla Corte costituirebbe un formidabile strumento di pressione. È una strada da percorrere, quantunque le diplomazie siano notoriamente restie, qualora gli interessi nazionali non vengano direttamente coinvolti.

Il ruolo dell’Unione europea
Resta sempre la possibilità per gli Stati, singolarmente o raggruppati in un’organizzazione internazionale come l’Unione Europea, di imporre sanzioni, senza che sia necessaria un’autorizzazione da parte del Cds. Gli Stati Uniti le hanno già imposte e l’Unione Europea dovrebbe inasprirle. La giunta birmana si arricchisce con le esportazioni di gas naturale, legname e rubini. Un’altra piaga è il narcotraffico. Le sanzioni dovrebbero essere “mirate” per impedire che misure di carattere generale finiscano per portare ancora più sofferenze al popolo birmano. Ne costituiscono un esempio il congelamento dei depositi e titoli finanziari all’estero o il divieto d’ingresso in territorio straniero. La leadership birmana probabilmente non ha conti nelle banche americane o dell’Europa occidentale e quindi sanzioni economiche di questo tipo non colpirebbero nel segno. Ma è tutto da verificare. Tra l’altro sanzioni economiche mirate potrebbero essere comminate dagli Stati appartenenti alla Community of Democracies, che sono numerosi e rappresentano tutte le aree geografiche e che in questo modo dimostrerebbero che la Community non è una scatola vuota.

Sanzioni più efficaci potrebbero essere proposte nei confronti delle imprese straniere che hanno rapporti d’affari con la Birmania (ad es. imprese indiane che operano anche nei paesi occidentali). Ma qui si tocca il nervo scoperto dei rapporti commerciali e difficilmente proposte del genere sarebbero attuate.

Non esiste una ricetta magica per la situazione birmana, che possa essere imposta dall’esterno. È però da sperare che una continua e incessante pressione internazionale, unita all’aperta ribellione del popolo birmano, provochi un cambiamento di regime. La pressione internazionale dovrebbe innanzitutto costringere Cina, India e Russia ad abbandonare il sostegno alla giunta birmana. A quel punto la questione potrebbe ritornare al Cds per l’adozione di sanzioni efficaci.

Dr. Giuseppe Paccione

Anonimo ha detto...

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