mercoledì 3 ottobre 2007

Birmania, dove la ferocia la chiamano pace e sviluppo

Il simbolo della dittatura militare birmana è la sua nuova capitale Naypyidaw, un tetro villaggio situato in un territorio montagnoso nel bel mezzo della giungla a 350 km a nord di Rangoon, lontano dalle principali direttrici di transito trasformata in una fortezza per il Consiglio statale per la pace e lo sviluppo (questo il nome ufficiale, decisamente orwelliano, della giunta militare) completamente separata dal resto del Paese.
Per capire un po’ meglio quello che è successo in questo ultimo mese e mezzo in Birmania non si può non fare riferimento alla sua travagliata storia e soprattutto agli ultimi 45 anni di regime.
Alla fine del 1800 la Birmania è annessa all’impero anglo-indiano per poi raggiungere l’indipendenza, parallelamente all’India e al Pakistan, nel 1938. Durante la seconda guerra mondiale il Paese ricade sotto l’nfluenza del Giappone che tuttavia riesce a conservare il sostegno politico dei birmani solo per un breve periodo. La difficile strada per la democrazia inizia con un massacro quando, il 19 luglio 1947, il gabinetto provvisorio che si prepara a guidare l’Unione Birmana viene abbattuto. Tra le vittime anche il generale Aung San padre di Suu Kyi leader della Lega per la democrazia e premio nobel per la pace. I sospetti su chi fosse il mandante sono sempre ricaduti sul futuro dittatore Ne Win. U Nu diventa primo ministro e deve fronteggiare una situazione caratterizzata da continue ribellioni e rivendicazioni di indipendenza. La fragile esperienza della democrazia viene troncata dal colpo di stato del generale Ne Win che tenta la via birmana al socialismo mediante una dittatura spietata.
Si stabilisce un sistema monopartitico con il Partito del programma socialista in Birmania, commercio e industria vengono nazionalizzati. Sotto la dittatura di Ne Win il Paese si isola completamente dal resto del mondo e i suoi abitanti vengono privati delle libertà basilari. L’esercito continua a ricevere rinforzi e armi a scapito della sanità e dell’istruzione, l’autarchia e la nazionalizzazione causano una vastissima economia clandestina nella quale ha un ruolo centrale il traffico di droga e di armi. Nell’aprile del 1974 il generale Ne Win si ritira formalmente pur continuando ad esercitare il proprio potere mediante il Partito.
Negli anni ottanta si registra una crescita economica dovuta a timide aperture verso l’esterno, ma verso la fine del decennio una brusca svalutazione della moneta locale, il Kyat, finisce per rovinare gran parte dei risparmiatori birmani. Questa volta la gente non subisce, l’8 agosto del 1988 prendono il via gigantesche e pacifiche manifestazioni di piazza per protestare contro 26 anni di dittatura militare e contro la sua politica economica. La repressione è immediata e violentissima, in sei settimane di scontri l’esercito apre più volte il fuoco sulla folla inerme. Tra i caduti durante le dimostrazioni e quelli prelevati dalle loro abitazioni e uccisi nei giorni seguenti, i morti sono circa 3000.
Dopo la sanguinosa rivolta del 1988, un nuovo colpo di stato, forse ispirato dallo stesso Ne Win, porta al potere il generale Saw Maung che dopo aver cambiato il nome della Birmania in Myanmar promette di indire le elezioni che si tengono il 27 maggio del 1990. La lega nazionale per la Democrazia di Aung San Suu Kyi ottiene una vittoria schiacciante con oltre l’80% dei voti, nonostante tutti i provvedimenti preventivi adottati dal governo. La giunta ignora i risultati, Suu Kyi, che nel 1991 verrà insignita del premio Nobel per la pace, rimane agli arresti domiciliari, l’opposizione è decimata, le ribellioni etniche schiacciate con le armi. Il 24 aprile 1992 il potere passa al generale Than Shwe, capo del Consiglio di stato per il ripristino della legge e dell'ordine, l'unico partito legale.
Le sanzioni economiche imposte dalla comunità internazionale in questi anni non hanno inciso sulla situazione di oppressione e il livello di violazione dei diritti umani (detenzione di prigionieri politici, lavoro forzato e riduzione in schiavitù, repressione delle minoranze etniche). L’effetto delle sanzioni è vanificato anche dai proficui rapporti economici che la Birmania intrattiene in particolare con la Cina, diventata il primo partner commerciale, e con l’India.
I fatti di questi ultimi giorni sono tristemente noti a tutti. Il 15 agosto, senza alcun preavviso, la giunta stabilisce il raddoppio del prezzo del diesel, la quintuplicazione del costo del gas naturale e l’aumento del prezzo di molti generi di prima necessità. La protesta, nei primi tempi perlopiù civile, attira l’attenzione internazionale quando il 18 settembre scendono in piazza migliaia di monaci buddisti facendola crescere in maniera esponenziale. Il regime ha risposto con la consueta violenza, sparando sulla folla. Secondo il governo i morti sono stati solo una decina ma in realtà si parla di un bilancio provvisorio e per difetto di 200 morti. La repressione va avanti soprattutto durante la notte mentre di giorno la parvenza è quella di un paese pacificato. I monasteri sono controllati dai militari, nel corso delle proteste circa un migliaio di religiosi sono stati arrestati e incarcerati, giornalisti birmani esuli in Thailandia parlano di ritorsioni e torture.
Ieri si è conclusa la missione dell’inviato dell’Onu Ibrahim Gambari che ha incontrato la leader dell’opposizione Suu Kyi e il generale Than Shwe. Mentre si registra una spaccatura in seno alla giunta militare tra Shwe e il suo vice, il generale Maung Ave, dovuta alla gestione della crisi, la comunità internazionale si appresta a mettere a punto un nuovo pacchetto di sanzioni economiche ma anche qui il fronte risulta essere tutt’altro che compatto.

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