Quella degli internati militari italiani (Imi) è una storia che per lungo tempo è stata dimenticata ma che rappresenta un’altra faccia non meno nobile, non meno importante della Resistenza.
Dopo l’8 settembre molti soldati italiani si rifiutarono di aderire alla Repubblica di Salò, molti a cui era stato assicurato il rimpatrio a condizione della consegna delle armi vennero ingannati e condotti nei campi di internamento tedeschi. Gli Imi in Germania furono oltre 650 mila, una categoria di militari riconosciuta dal diritto internazionale ma non considerata dalla convenzione di Ginevra del 27 luglio 1929. L’utilizzazione di questa condizione al posto di quella di prigioniero di guerra permise alle autorità naziste di sfruttarli e di mantenere così in vita, almeno a livello simbolico, l’alleanza tra la Germania nazista e la Rsi. I tedeschi, animati da quell’odio razziale nei confronti dell’Italia ereditato dalla prima guerra mondiale, solo attenuato dal patto d’Acciaio del 1939, e acuitosi dopo il tradimento dell’8 settembre, sottoposero gli internati italiani a condizioni di prigionia disumane, la scarsità di cibo, il sovraffollamento, la scarsa igiene veicolo di malattie erano la norma come pure i maltrattamenti, le violenze, le pressioni psicologiche.
L’unico modo per sottrarsi a questo regime di prigionia o migliorare la propria condizione nel campo era la collaborazione. Si poteva lavorare per l’economia di guerra del Reich andando in fabbrica, nei campi o arruolandosi nell’esercito tedesco con mansioni ausiliarie, oppure aderire all’esercito della Repubblica sociale. La maggior parte degli Imi rifiutò. Per alcuni di loro questa scelta fu convinta e immediata per altri, meno preparati dal punto di vista politico, fu più sofferta e maturò con l’aiuto dei compagni.
Le attività culturali che si svolgevano in maniera semiclandestina all’interno dei campi contribuirono ad affermare la dignità dei prigionieri, ad educarli a idee e principi che per molti erano una novità, a creare il clima di resistenza. Da principio singoli o piccoli nuclei agivano all’insaputa degli altri, provenivano da esperienze politiche e culturali diverse ma erano tutti diretti a contribuire alla formazione di una società nuova, fondata sulla democrazia, sulla libertà, sul progresso sociale e inserita in un contesto europeo. C’erano gli ufficiali in Servizio permanente effettivo, generalmente monarchici, affiancati dai cappellani militari, c’erano gli intellettuali antifascisti, o meglio antidittatoriali, c’erano uomini di estrazione marxista, liberale o cristiana.
Si svilupparono in questo contesto i cosiddetti “giornali parlati”, le tavole rotonde, la diffusione di numerosi libri.
Di questa “resistenza senz’armi” di questo “fronte senza eroi” si parlò poco nell’immediato dopoguerra e per circa un decennio anche la storiografia sembrò dimenticarsene. La stessa Associazione nazionale ex internati (Anei), il cui progetto era nato già all’interno dei campi in Germania, trovò non poche difficoltà per ottenere un riconoscimento giuridico.
Solo nel 1965 Ferruccio Parri, al congresso dell’Anei, e il 15 maggio a Milano il Presidente della Repubblica Saragat, furono i primi a riconoscere che quel no alla collaborazione e all’adesione alla RSI era da considerarsi un vero gesto di resistenza.
Dopo l’8 settembre molti soldati italiani si rifiutarono di aderire alla Repubblica di Salò, molti a cui era stato assicurato il rimpatrio a condizione della consegna delle armi vennero ingannati e condotti nei campi di internamento tedeschi. Gli Imi in Germania furono oltre 650 mila, una categoria di militari riconosciuta dal diritto internazionale ma non considerata dalla convenzione di Ginevra del 27 luglio 1929. L’utilizzazione di questa condizione al posto di quella di prigioniero di guerra permise alle autorità naziste di sfruttarli e di mantenere così in vita, almeno a livello simbolico, l’alleanza tra la Germania nazista e la Rsi. I tedeschi, animati da quell’odio razziale nei confronti dell’Italia ereditato dalla prima guerra mondiale, solo attenuato dal patto d’Acciaio del 1939, e acuitosi dopo il tradimento dell’8 settembre, sottoposero gli internati italiani a condizioni di prigionia disumane, la scarsità di cibo, il sovraffollamento, la scarsa igiene veicolo di malattie erano la norma come pure i maltrattamenti, le violenze, le pressioni psicologiche.
L’unico modo per sottrarsi a questo regime di prigionia o migliorare la propria condizione nel campo era la collaborazione. Si poteva lavorare per l’economia di guerra del Reich andando in fabbrica, nei campi o arruolandosi nell’esercito tedesco con mansioni ausiliarie, oppure aderire all’esercito della Repubblica sociale. La maggior parte degli Imi rifiutò. Per alcuni di loro questa scelta fu convinta e immediata per altri, meno preparati dal punto di vista politico, fu più sofferta e maturò con l’aiuto dei compagni.
Le attività culturali che si svolgevano in maniera semiclandestina all’interno dei campi contribuirono ad affermare la dignità dei prigionieri, ad educarli a idee e principi che per molti erano una novità, a creare il clima di resistenza. Da principio singoli o piccoli nuclei agivano all’insaputa degli altri, provenivano da esperienze politiche e culturali diverse ma erano tutti diretti a contribuire alla formazione di una società nuova, fondata sulla democrazia, sulla libertà, sul progresso sociale e inserita in un contesto europeo. C’erano gli ufficiali in Servizio permanente effettivo, generalmente monarchici, affiancati dai cappellani militari, c’erano gli intellettuali antifascisti, o meglio antidittatoriali, c’erano uomini di estrazione marxista, liberale o cristiana.
Si svilupparono in questo contesto i cosiddetti “giornali parlati”, le tavole rotonde, la diffusione di numerosi libri.
Di questa “resistenza senz’armi” di questo “fronte senza eroi” si parlò poco nell’immediato dopoguerra e per circa un decennio anche la storiografia sembrò dimenticarsene. La stessa Associazione nazionale ex internati (Anei), il cui progetto era nato già all’interno dei campi in Germania, trovò non poche difficoltà per ottenere un riconoscimento giuridico.
Solo nel 1965 Ferruccio Parri, al congresso dell’Anei, e il 15 maggio a Milano il Presidente della Repubblica Saragat, furono i primi a riconoscere che quel no alla collaborazione e all’adesione alla RSI era da considerarsi un vero gesto di resistenza.
2 commenti:
Sono contento che tu (posso permettermi di dar del tu?) abbia scritto questo post perché si parla poco di questo argomento in proporzione al numero di soldati coinvolti. Bravissimo!
Segnala,se conosci qualche IMI, la possibilità di procurarsi la modulistica per ottenere la Medaglia d'Onore scaricandola in formato Word dal blog: http://blog.libero.it/anedbg/. Per ulteriori informazioni sulla compilazione e su altri argomenti attinenti è possibile contattare il presidente dell'ANED Bergamo l'ing. Gianfranco Cucco all'indirizzo email: ikipcu@tin.
A presto, Oscar Brambani (http://blog.libero.it/reticolistorici/)
sono con voi,sono figlio di un IMI
ho appena ricevuto la documentazione dagli uffici storici di Mantova e Verona,e dei vari distretti,ma finalmente ho il tutto, ora posso inviare la documentazione a Roma per la richiesta della medaglia d'onore.
però vi voglio raccontare che con mia grande meravifglia Verona mi ha invitato a ritirare 3 medaglie di Guerra,sono medaglie di ferro,valore simbolico,ma che se mio padre fosse ancora in vita ne sarebbe stato orgoglioso di ricevere tali onori.1l 19 p.v sarò a Verona ,sarà x me una grande giornata,che dedicherò a mio padre e a quanto con altri ha sofferto dal 9/sett del 43 fino al marzo del 45-
un saluto, e se avete bisogno di delucidazioni chiamatemi al mio indirizzo.
spero che altri si risveglino e che anche loro parlino e + importante leggere,documentarsi,ci sono vari libri su i deportati nei campi tedeschi.
Gianfranco Malanca
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