Nell’estate del 1943 le truppe italiane sono ormai incapaci di proseguire una guerra che si era rivelata più lunga del previsto. La sconfitta di El Alamein, che determina la perdita da parte dell’Asse di ogni capacità di iniziativa nel Mediterraneo, la perdita della Libia, l’evacuazione dell’Africa settentrionale e l’occupazione anglo-americana della Sicilia annullano progressivamente ogni speranza di ripresa. Dopo 45 giorni di governo, l’8 settembre alle ore 18.30 il Maresciallo Badoglio comunica via radio la firma dell’armistizio di Cassibile, più simile ad una resa senza condizioni: ufficiali, soldati ma anche la popolazione civile sul territorio nazionale e oltremare vengono di fatto abbandonati al loro destino e quel poco di tessuto connettivo delle istituzioni, sopravvissuto al 25 luglio, si sfalda rapidamente. Il 9 settembre il Re Vittorio Emanuele III e il nuovo Governo fuggono verso Brindisi.
La situazione delle truppe sul territorio italiano è una delle più difficili e disperate della storia della guerra poiché alla reazione dei nazisti contro i traditori, si deve aggiungere l’errore politico e strategico degli Anglo-Americani, che cancellarono all’ultimo momento l’intervento su Roma e l’assenza di autorità e capacità decisionale del Governo Badoglio, tutte cause che portarono allo sfascio completo l’apparato bellico italiano.
Al di fuori della penisola al momento dell’armistizio, di cui hanno notizia quasi sempre solo per radio, sono impegnate ben 35 divisioni con circa 600 mila uomini contro le 24 divisioni presenti sul territorio italiano. La situazione dei reparti italiani all’estero è molto differente rispetto a quella dei loro commilitoni in Italia. Se da una parte la loro condizione è complicata dal fatto di essere distanti dalla madre patria è pur vero che ciò in qualche modo evita che essi finiscano allo sbando in virtù del fatto che, in molti casi, come nei Balcani o in Grecia, si era giunti a un notevole grado di integrazione tra le unità italiane e quelle tedesche. Inoltre le nostre truppe, in qualità di occupanti dovevano fronteggiare le formazioni partigiane, ragioni che spinsero le unità italiane all’estero a restare coese in attesa di ordini che chiarissero quale fosse il comportamento da tenere, in base alle nuove condizioni seguite all’armistizio, soprattutto nei confronti delle truppe tedesche. Quegli ordini arriveranno solo il giorno 11, su pressione diretta del Generale Eisenhower, che per la prima volta chiaramente ordinò di attaccare i Tedeschi, ordine che però arrivò nella maggior parte dei casi con molto ritardo, quando già molte unità italiane avevano ceduto le armi ai Tedeschi anche laddove le forze italiane erano nettamente superioni come nell’Egeo. I comandi germanici sono spinti a cercare accordi con gli italiani per ottenere un totale o parziale disarmo. La maggior parte degli italiani, nella speranza di essere rimpatriati, decide di arrendersi mentre ben pochi reparti accettano l’offerta di continuare a combattere a fianco dei Tedeschi. In questa situazione di totale confusione, diversi reparti si rifiutano di eseguire l’ordine di consegna delle armi ai Tedeschi e danno vita a una prima forma di vera resistenza. Nelle isole greche a Cefalonia dei 10 mila soldati della Divisione Acqui, 2 mila cadono combattendo, 4 mila vengono massacrati dai Tedeschi tra il 22 e il 25 settembre e oltre 3 mila fatti prigionieri. Il Generale Gandin, comandante della divisione, viene fucilato.
Il 10 i soldati tedeschi occupano Roma e il 12 liberano Mussolini prigioniero sul Gran Sasso, inspiegabilmente o volutamente dimenticato in una località solo apparentemente difendibile.
Secondo chi attribuisce la responsabilità di quello che accadde dopo l’8 settembre (costituzione della RSI e la guerra civile fino alla conclusione del conflitto nel 1945) a Badoglio in prima persona e innanzitutto, al suo Governo, al Re e ad un numero ristretto di alti ufficiali, la defenestrazione di Mussolini e la resa agli anglo-americani avrebbero dovuto svolgersi simultaneamente all’indomani del 25 luglio. Sarebbe stata questa un’operazione coerente e trasparente che avrebbe anche consentito di conferire l’apporto dei militari ai costituendi gruppi di resistenza armata.
Vi è tuttavia chi ha dissentito da questa visione delle cose. Nel settembre del 2003, in occasione del sessantennale dell’8 settembre, in una intervista rilasciata al mensile di storia contemporanea Millenovecento, Aldo A. Mola, uno dei maggiori storici della monarchia in Italia e della massoneria, giudica l’operato del Maresciallo Badoglio come teso a limitare i danni il più possibile. Secondo Mola, Badoglio, sul fronte interno seppe arginare il contrattacco dei fascisti dopo il 25 luglio, rimasto completamente solo dopo lo scioglimento degli organi fascisti e non appoggiato dai rinascenti partiti democratici, che rifiutarono ogni collaborazione con l’intento di far ricadere solo sulla casa reale la colpa della disfatta, tutto ciò su cui Badoglio poteva ancora contare era l’esercito col cui supporto portò avanti un lavoro diplomatico che diede ottimi risultati.
Sul fronte tedesco il Maresciallo sapeva benissimo che l’esercito italiano non aveva nessuna speranza contro la maggiore motivazione e combattività delle truppe germaniche, questo giustificherebbe, secondo Mola, la mancanza di ordini ai militari.
Sul fronte alleato va ricordato che l’armistizio fu in realtà una resa senza condizioni e per gli anglo-americani l’Italia rimase terra di occupazione.
Su entrambi i fronti si trattava quindi di una guerra contro tutti che l’Italia non era in grado di combattere, in tali condizioni l’inerzia era la risposta meno dolorosa.
Per quanto riguarda la fuga da Roma Mola non la squalifica come atto di vigliaccheria o rinuncia, come fu definito tanto dalla RSI quanto dalle forze resistenziali repubblicane e socialcomuniste, ma la considera come l’unico atto possibile per preservare la città, storicamente indifendibile, dalla devastazione.
Mola conclude dicendo che la mossa del Governo Badoglio in questo senso fu frutto di calcolo e non di vigliaccheria, un calcolo che serviva a preservare l’unità e i confini nazionali fortemente in pericolo, la scelta di Vittorio Emanuele III di dirigersi verso la Puglia preservò la continuità dello Stato. A questo proposito Mola ricorda uno studio di Vanna Vailati supportato da documenti ufficiali e secondo il quale era stato approntato un piano di spartizione dell’Italia tra Francia, Jugoslavia, Grecia e Gran Bretagna.
La situazione delle truppe sul territorio italiano è una delle più difficili e disperate della storia della guerra poiché alla reazione dei nazisti contro i traditori, si deve aggiungere l’errore politico e strategico degli Anglo-Americani, che cancellarono all’ultimo momento l’intervento su Roma e l’assenza di autorità e capacità decisionale del Governo Badoglio, tutte cause che portarono allo sfascio completo l’apparato bellico italiano.
Al di fuori della penisola al momento dell’armistizio, di cui hanno notizia quasi sempre solo per radio, sono impegnate ben 35 divisioni con circa 600 mila uomini contro le 24 divisioni presenti sul territorio italiano. La situazione dei reparti italiani all’estero è molto differente rispetto a quella dei loro commilitoni in Italia. Se da una parte la loro condizione è complicata dal fatto di essere distanti dalla madre patria è pur vero che ciò in qualche modo evita che essi finiscano allo sbando in virtù del fatto che, in molti casi, come nei Balcani o in Grecia, si era giunti a un notevole grado di integrazione tra le unità italiane e quelle tedesche. Inoltre le nostre truppe, in qualità di occupanti dovevano fronteggiare le formazioni partigiane, ragioni che spinsero le unità italiane all’estero a restare coese in attesa di ordini che chiarissero quale fosse il comportamento da tenere, in base alle nuove condizioni seguite all’armistizio, soprattutto nei confronti delle truppe tedesche. Quegli ordini arriveranno solo il giorno 11, su pressione diretta del Generale Eisenhower, che per la prima volta chiaramente ordinò di attaccare i Tedeschi, ordine che però arrivò nella maggior parte dei casi con molto ritardo, quando già molte unità italiane avevano ceduto le armi ai Tedeschi anche laddove le forze italiane erano nettamente superioni come nell’Egeo. I comandi germanici sono spinti a cercare accordi con gli italiani per ottenere un totale o parziale disarmo. La maggior parte degli italiani, nella speranza di essere rimpatriati, decide di arrendersi mentre ben pochi reparti accettano l’offerta di continuare a combattere a fianco dei Tedeschi. In questa situazione di totale confusione, diversi reparti si rifiutano di eseguire l’ordine di consegna delle armi ai Tedeschi e danno vita a una prima forma di vera resistenza. Nelle isole greche a Cefalonia dei 10 mila soldati della Divisione Acqui, 2 mila cadono combattendo, 4 mila vengono massacrati dai Tedeschi tra il 22 e il 25 settembre e oltre 3 mila fatti prigionieri. Il Generale Gandin, comandante della divisione, viene fucilato.
Il 10 i soldati tedeschi occupano Roma e il 12 liberano Mussolini prigioniero sul Gran Sasso, inspiegabilmente o volutamente dimenticato in una località solo apparentemente difendibile.
Secondo chi attribuisce la responsabilità di quello che accadde dopo l’8 settembre (costituzione della RSI e la guerra civile fino alla conclusione del conflitto nel 1945) a Badoglio in prima persona e innanzitutto, al suo Governo, al Re e ad un numero ristretto di alti ufficiali, la defenestrazione di Mussolini e la resa agli anglo-americani avrebbero dovuto svolgersi simultaneamente all’indomani del 25 luglio. Sarebbe stata questa un’operazione coerente e trasparente che avrebbe anche consentito di conferire l’apporto dei militari ai costituendi gruppi di resistenza armata.
Vi è tuttavia chi ha dissentito da questa visione delle cose. Nel settembre del 2003, in occasione del sessantennale dell’8 settembre, in una intervista rilasciata al mensile di storia contemporanea Millenovecento, Aldo A. Mola, uno dei maggiori storici della monarchia in Italia e della massoneria, giudica l’operato del Maresciallo Badoglio come teso a limitare i danni il più possibile. Secondo Mola, Badoglio, sul fronte interno seppe arginare il contrattacco dei fascisti dopo il 25 luglio, rimasto completamente solo dopo lo scioglimento degli organi fascisti e non appoggiato dai rinascenti partiti democratici, che rifiutarono ogni collaborazione con l’intento di far ricadere solo sulla casa reale la colpa della disfatta, tutto ciò su cui Badoglio poteva ancora contare era l’esercito col cui supporto portò avanti un lavoro diplomatico che diede ottimi risultati.
Sul fronte tedesco il Maresciallo sapeva benissimo che l’esercito italiano non aveva nessuna speranza contro la maggiore motivazione e combattività delle truppe germaniche, questo giustificherebbe, secondo Mola, la mancanza di ordini ai militari.
Sul fronte alleato va ricordato che l’armistizio fu in realtà una resa senza condizioni e per gli anglo-americani l’Italia rimase terra di occupazione.
Su entrambi i fronti si trattava quindi di una guerra contro tutti che l’Italia non era in grado di combattere, in tali condizioni l’inerzia era la risposta meno dolorosa.
Per quanto riguarda la fuga da Roma Mola non la squalifica come atto di vigliaccheria o rinuncia, come fu definito tanto dalla RSI quanto dalle forze resistenziali repubblicane e socialcomuniste, ma la considera come l’unico atto possibile per preservare la città, storicamente indifendibile, dalla devastazione.
Mola conclude dicendo che la mossa del Governo Badoglio in questo senso fu frutto di calcolo e non di vigliaccheria, un calcolo che serviva a preservare l’unità e i confini nazionali fortemente in pericolo, la scelta di Vittorio Emanuele III di dirigersi verso la Puglia preservò la continuità dello Stato. A questo proposito Mola ricorda uno studio di Vanna Vailati supportato da documenti ufficiali e secondo il quale era stato approntato un piano di spartizione dell’Italia tra Francia, Jugoslavia, Grecia e Gran Bretagna.
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