“Ero a casa mia nel centro di Manhattan. Alle nove in punto ho avuto la sensazione d'un pericolo che forse non mi avrebbe toccato ma che certo mi riguardava. L' ho respinta. Ma la sensazione ha continuato a possedermi, inspiegabile, e allora ho fatto ciò che al mattino non faccio mai. Ho acceso la Tv. Bè, l' audio non funzionava. Lo schermo, sì. E su ogni canale, vedevi una torre del World Trade Center che bruciava come un gigantesco fiammifero. Un corto circuito? Un piccolo aereo sbadato? Oppure un atto di terrorismo mirato? Quasi paralizzata son rimasta a fissarla e mentre la fissavo, mentre mi ponevo quelle tre domande, sullo schermo è apparso un aereo. Bianco, grosso. Un aereo di linea. Volava bassissimo. Volando bassissimo si dirigeva verso la seconda torre come un bombardiere che punta sull' obiettivo, si getta sull' obiettivo. Sicché ho capito.”
Era il 29 settembre 2001 e così Oriana Fallaci ricordava l’attacco alle Twin Towers aprendo un gigantesco articolo sul Corriere della sera dal titolo “La rabbia e l’orgoglio”.
Quelle della Fallaci sono le parole di tutti noi che ricordiamo con vivida ed innaturale esattezza dove eravamo e ciò che stavamo facendo quando attorno alle nove, le quindici in Italia, dell’11 settembre di sei anni fa, aerei di linea dirottati da terroristi si schiantavano contro i grattacieli di New York e contro il Pentagono. Le vittime furono quasi tremila.
Il giorno dopo il Corriere della sera titolava “Attacco all’America e alla civiltà” e l’allora direttore, Ferruccio De Bortoli, citando John Kennedy, firmava un editoriale dal titolo “Siamo tutti americani”.
In questi sei anni il terrorismo islamico ha continuato a colpirci dentro e fuori casa nostra, oltre a New York anche Madrid e Londra sono diventate luoghi simbolo di quell’attacco alla civiltà. Nonostante questo l’Occidente sembra non comprendere ancora che in questa guerra è in gioco la propria libertà il che vale a dire la propria esistenza. Assistiamo ad una sostanziale acquiescenza, una pericolosa tolleranza nei confronti della minaccia crescente del radicalismo islamico che trova fondamento in un malinteso e deviato senso dei diritti umani, nel concetto di multiculturalismo, nel nostro ingiustificato senso di colpa.
Prendiamo la stessa commemorazione dell’undici settembre, ormai da tempo si fa riferimento a quella data non per ricordarne le vittime o discutere sul significato politico di quell’attentato ma per gettare ombre, sospetti e discredito sull’odiata amministrazione Bush e su Israele. La teoria revisionista vuole che quel giorno non furono Al Qaeda e Bin Laden a provocare quell’ecatombe, ma gli stessi Stati Uniti o parte del loro establishment per indurre Bush o per consentirgli, o per costringerlo a dichiarare una guerra infinita contro il terrorismo che avrebbe prodotto enormi vantaggi economici, controllo del mercato del petrolio innanzitutto, e consentito l’avvio di una strategia imperiale per la conquista del mondo. In Italia è uscito di recente un pamphlet dal titolo “Zero. Perchè la versione ufficiale sull'11 settembre è un falso”. Il libro dà conto di posizioni come quella del giornalista ed esponente di Sinistra democratica Giulietto Chiesa che identifica il «cosiddetto terrorismo internazionale con un'azione diretta e indiretta dei servizi segreti americani e israeliani» o di quella dello storico Webster Griffin Tarpley che parla del «mito dell'11 settembre come strumento per legittimare le tendenze razziste, militariste e fasciste del nostro tempo». Un’operazione che, come molte altre, affastella indizi e illazioni strumentali alla tesi negazionista.
Al di là di quello che si sostiene in opere di questo tipo quello dell’11 settembre è stato un attacco di inaudita ferocia sferrato contro di noi dal fondamentalismo islamico al quale bisogna continuare a rispondere con fermezza.
Al Qaeda si sta riorganizzando sia dal punto di vista strategico sia da quello strettamente geografico. Sul primo versante gli attenti falliti di Londra e Glasgow del luglio scorso organizzati da terroristi perfettamente integrati, con mezzi reperiti legalmente, o il modus operandi dell’Imam di Ponte Felcino che aveva come fonte pressocchè esclusiva di indottrinamento, la rete, dimostrano che Al Quaeda, che significa appunto “la base”, si è spogliata del ruolo di centrale operativa. Attraverso cinque o sei «stati maggiori», suddivisi per grandi aree geografiche, fornisce alle “cellule dormienti” di tutto mondo, il know-how per mezzo di internet, mantiene rapporti e divide i flussi finanziari tra le organizzazioni terroristiche affiliate, non fa mancare la propaganda e l’incitamento alla jihad ma lascia, in ogni caso, che i singoli militanti decidano autonomamente sull’aspetto operativo. Questo maggiore radicamento territoriale rende più difficili le attività antiterroristiche. Dal punto di vista geografico il quartier generale di Al Qaeda si è spostato nel Waziristan, una regione al confine tra Pakistan e Afghanistan su cui le forze governative pakistane hanno perso completamente il controllo. In questa zona franca si è rinsaldata l’alleanza tra terroristi islamici e talebani che consente ad Al Qaeda di lucrare sui proventi del mercato dell’oppio e di far muovere, grazie alla posizione strategica, guerriglieri verso le province afghane di Helmand ed Herat , dove la situazione negli ultimi mesi è peggiorata sensibilmente. Anche il reclutamento segna in qualche modo un ritorno alle origini, oltre alle cellule autonome, si vuole dare vita a quella che i servizi segreti di mezzo mondo chiamano «la falange bionda» cioè un esercito di mujaheddin di origine slava come ai tempi della guerra in Bosnia. Tutto questo secondo l’intelligence americana ha ampliato e potenziato le capacità di attacco di Al Qaeda nei confronti dell’Occidente tanto da renderla più forte e pericolosa anche rispetto a prima dell’11 settembre.
Un rischio ulteriore è rappresentato dalla possibile saldatura tra estremismo sunnita e sciita sullo scenario mediorientale. Da qualche mese Al Qaeda è tornata attiva in questa zona attraverso il gruppo Fatah al-Islam e per bocca del suo portavoce, il medico egiziano, Ayman Al Zawahiri, ha invitato Hamas a tenere una lotta comune contro i «crociati e i sionisti ovunque nel mondo». In realtà Hamas ed Al Qaeda, entrambe organizzazioni sunnite, provengono dal medesimo ventre ideologico e, come denunciato anche dal Presidente palestinese Abu Mazen, già in passato hanno condiviso armi, finanziamenti e campi di addestramento senza che ci fosse bisogno di nessuna ammissione di una alleanza formale da parte di Hamas. Quello che più preoccupa e che rappresenta in qualche modo una novità, è il legame sempre più stretto tra Al Qaeda e il movimento sciita Hezbollah che si muove sotto la regia dell’Iran e della Siria. Esempio eclatante di questa saldatura è l'attacco qaedista al contingente spagnolo della missione Unifil in Libano avvenuto nel giugno scorso. Assistiamo quindi al comporsi di un’alleanza islamista estrema sunnita e sciita che ha come intenti comuni la distruzione di Israele e la jihad contro l’occidente. Lo scenario mediorientale diventa così un eccellente laboratorio per la formazione di un fronte comune tra movimenti terroristici di diversa estrazione da esportare in tutto il mondo.
A tutto questo l’Occidente risponde con il suo stucchevole politically correct nei confronti della cultura islamica anche estremista, con le tesi di complotti e in Italia con Fassino che vuole il dialogo con i talebani, con D’Alema a braccetto con gli esponenti di Hezbollah e con Prodi divenuto il paladino di Hamas in Europa. Sconfortante.
Era il 29 settembre 2001 e così Oriana Fallaci ricordava l’attacco alle Twin Towers aprendo un gigantesco articolo sul Corriere della sera dal titolo “La rabbia e l’orgoglio”.
Quelle della Fallaci sono le parole di tutti noi che ricordiamo con vivida ed innaturale esattezza dove eravamo e ciò che stavamo facendo quando attorno alle nove, le quindici in Italia, dell’11 settembre di sei anni fa, aerei di linea dirottati da terroristi si schiantavano contro i grattacieli di New York e contro il Pentagono. Le vittime furono quasi tremila.
Il giorno dopo il Corriere della sera titolava “Attacco all’America e alla civiltà” e l’allora direttore, Ferruccio De Bortoli, citando John Kennedy, firmava un editoriale dal titolo “Siamo tutti americani”.
In questi sei anni il terrorismo islamico ha continuato a colpirci dentro e fuori casa nostra, oltre a New York anche Madrid e Londra sono diventate luoghi simbolo di quell’attacco alla civiltà. Nonostante questo l’Occidente sembra non comprendere ancora che in questa guerra è in gioco la propria libertà il che vale a dire la propria esistenza. Assistiamo ad una sostanziale acquiescenza, una pericolosa tolleranza nei confronti della minaccia crescente del radicalismo islamico che trova fondamento in un malinteso e deviato senso dei diritti umani, nel concetto di multiculturalismo, nel nostro ingiustificato senso di colpa.
Prendiamo la stessa commemorazione dell’undici settembre, ormai da tempo si fa riferimento a quella data non per ricordarne le vittime o discutere sul significato politico di quell’attentato ma per gettare ombre, sospetti e discredito sull’odiata amministrazione Bush e su Israele. La teoria revisionista vuole che quel giorno non furono Al Qaeda e Bin Laden a provocare quell’ecatombe, ma gli stessi Stati Uniti o parte del loro establishment per indurre Bush o per consentirgli, o per costringerlo a dichiarare una guerra infinita contro il terrorismo che avrebbe prodotto enormi vantaggi economici, controllo del mercato del petrolio innanzitutto, e consentito l’avvio di una strategia imperiale per la conquista del mondo. In Italia è uscito di recente un pamphlet dal titolo “Zero. Perchè la versione ufficiale sull'11 settembre è un falso”. Il libro dà conto di posizioni come quella del giornalista ed esponente di Sinistra democratica Giulietto Chiesa che identifica il «cosiddetto terrorismo internazionale con un'azione diretta e indiretta dei servizi segreti americani e israeliani» o di quella dello storico Webster Griffin Tarpley che parla del «mito dell'11 settembre come strumento per legittimare le tendenze razziste, militariste e fasciste del nostro tempo». Un’operazione che, come molte altre, affastella indizi e illazioni strumentali alla tesi negazionista.
Al di là di quello che si sostiene in opere di questo tipo quello dell’11 settembre è stato un attacco di inaudita ferocia sferrato contro di noi dal fondamentalismo islamico al quale bisogna continuare a rispondere con fermezza.
Al Qaeda si sta riorganizzando sia dal punto di vista strategico sia da quello strettamente geografico. Sul primo versante gli attenti falliti di Londra e Glasgow del luglio scorso organizzati da terroristi perfettamente integrati, con mezzi reperiti legalmente, o il modus operandi dell’Imam di Ponte Felcino che aveva come fonte pressocchè esclusiva di indottrinamento, la rete, dimostrano che Al Quaeda, che significa appunto “la base”, si è spogliata del ruolo di centrale operativa. Attraverso cinque o sei «stati maggiori», suddivisi per grandi aree geografiche, fornisce alle “cellule dormienti” di tutto mondo, il know-how per mezzo di internet, mantiene rapporti e divide i flussi finanziari tra le organizzazioni terroristiche affiliate, non fa mancare la propaganda e l’incitamento alla jihad ma lascia, in ogni caso, che i singoli militanti decidano autonomamente sull’aspetto operativo. Questo maggiore radicamento territoriale rende più difficili le attività antiterroristiche. Dal punto di vista geografico il quartier generale di Al Qaeda si è spostato nel Waziristan, una regione al confine tra Pakistan e Afghanistan su cui le forze governative pakistane hanno perso completamente il controllo. In questa zona franca si è rinsaldata l’alleanza tra terroristi islamici e talebani che consente ad Al Qaeda di lucrare sui proventi del mercato dell’oppio e di far muovere, grazie alla posizione strategica, guerriglieri verso le province afghane di Helmand ed Herat , dove la situazione negli ultimi mesi è peggiorata sensibilmente. Anche il reclutamento segna in qualche modo un ritorno alle origini, oltre alle cellule autonome, si vuole dare vita a quella che i servizi segreti di mezzo mondo chiamano «la falange bionda» cioè un esercito di mujaheddin di origine slava come ai tempi della guerra in Bosnia. Tutto questo secondo l’intelligence americana ha ampliato e potenziato le capacità di attacco di Al Qaeda nei confronti dell’Occidente tanto da renderla più forte e pericolosa anche rispetto a prima dell’11 settembre.
Un rischio ulteriore è rappresentato dalla possibile saldatura tra estremismo sunnita e sciita sullo scenario mediorientale. Da qualche mese Al Qaeda è tornata attiva in questa zona attraverso il gruppo Fatah al-Islam e per bocca del suo portavoce, il medico egiziano, Ayman Al Zawahiri, ha invitato Hamas a tenere una lotta comune contro i «crociati e i sionisti ovunque nel mondo». In realtà Hamas ed Al Qaeda, entrambe organizzazioni sunnite, provengono dal medesimo ventre ideologico e, come denunciato anche dal Presidente palestinese Abu Mazen, già in passato hanno condiviso armi, finanziamenti e campi di addestramento senza che ci fosse bisogno di nessuna ammissione di una alleanza formale da parte di Hamas. Quello che più preoccupa e che rappresenta in qualche modo una novità, è il legame sempre più stretto tra Al Qaeda e il movimento sciita Hezbollah che si muove sotto la regia dell’Iran e della Siria. Esempio eclatante di questa saldatura è l'attacco qaedista al contingente spagnolo della missione Unifil in Libano avvenuto nel giugno scorso. Assistiamo quindi al comporsi di un’alleanza islamista estrema sunnita e sciita che ha come intenti comuni la distruzione di Israele e la jihad contro l’occidente. Lo scenario mediorientale diventa così un eccellente laboratorio per la formazione di un fronte comune tra movimenti terroristici di diversa estrazione da esportare in tutto il mondo.
A tutto questo l’Occidente risponde con il suo stucchevole politically correct nei confronti della cultura islamica anche estremista, con le tesi di complotti e in Italia con Fassino che vuole il dialogo con i talebani, con D’Alema a braccetto con gli esponenti di Hezbollah e con Prodi divenuto il paladino di Hamas in Europa. Sconfortante.
2 commenti:
Con l'Europa che ancora da quattrini alle oligarchie palestinesi, con gli ebrei che partono dalla Francia perchè hanno paura, con Bruxelles che è contro i cortei contro il terrorismo islamico.
E con i nostri "esperti" che vorrebbero che gli Stati Uniti deleghino la loro sicurezza all'ONU, compiendo al massimo operazioni di polizia chiedendo il permesso.
Che squallido...
Gia' e' vergognoso... io spero che nonostante l'enorme pressione di certa cultura politically correct che vomita giustificazionismo, anti-americanismo,anti-semitismo,buonismo nei cinema, nei libri e nei giornali, spero che, nonostante questo, gli europei siano piu' svegli e piu' pronti a capire il pericolo dei loro governanti. E forse e' cosi' perche' ormai lo vedono nella loro vita quotidiana. Cosa che manca agli intelletuali ed ai politici che vivono in un loro mondo a parte. Impedire a Bruxelles una manifestazione non e' "rispetto dell'ordine pubblico", e' censura, e' un atto di fascismo come non se ne vedevano da 60 anni in Europa.
L'11 settembre ha unito l'America, l'ha resa anche piu' forte, ha aumentato il senso dell'appartenenza ad una Patria, e ha fatto capire a molti giovani Americani il significato della frase "Freedom is not Free". In Europa invece ha avuto un esito opposto. L'ha resa una lurida puttana disposta a tutto pur di salvarsi la pelle. Anche sacrificare le sue tradizioni, la sua liberta', le sue radici.
Ora come ora tutto e' in mano alla gente, agli Europei, tutto dipende da Loro, da Noi.
Simmaco
http://www.atlanticpeople.splinder.com
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