lunedì 27 ottobre 2008

Obama-McCain, è davvero finita?

Ad una settimana dal voto i giochi sembrano fatti. Secondo i sondaggi Barack Obama sarà il prossimo Presidente degli Stati Uniti. Quasi tutto è a suo favore: il fascino, la crisi finanziaria, i Clinton, la stampa internazionale e una bella fetta del mondo conservatore con in testa Colin Powell. McCain resiste stoicamente nonostante la Palin

Questa immagine corredava un post di Italian blogs for McCain pubblicato all'indomani del dibattito di Nashville. Obama verso la Casa bianca e soprattutto verso la santificazione della stampa e dell'editoria mondiale. D'altronde come dargli torto, il senatore dell'Illnois, stando agli ultimi sondaggi, staccherebbe, il condizionale è d'obbligo, di otto-dieci punti l'avversario repubblicano e se si guarda al numero di grandi elettori conquistati la prospettiva sarebbe ancora più rosea. Nel sistema di elezione del Presidente degli Stati Uniti non vince chi riceve il maggior numero di voti individuali, ma chi ottiene almeno 270 dei cosiddetti grandi elettori attribuiti da ogni Stato in rapporto alla popolazione. Obama ne avrebbe 277 contro i 174 di McCain. Pare che nulla più possa scalfire il momento magico del senatore afroamericano non le accuse di inesperienza, non i postumi della prolungata battaglia interna con Hillary Clinton del tutto riassorbiti, non gli scandali veri e presunti o i rapporti imbarazzanti di cui viene accusato dai repubblicani. La sua campagna elettorale da record prosegue spedita verso Pennsylvania Avenue. Di contro McCain arranca. Paga, in questo momento come non mai, l'appartenenza allo stesso partito di Bush e qualche indecisione di troppo sui temi economici. L'effetto Sarah Palin sembra essere svanito e, se la scelta di avere come vice la combattiva governatrice dell'Alaska ha sicuramente rafforzato il rapporto tra il maverick McCain e la base conservatrice, gli ha anche alienato, in maniera a quanto pare irreversibile, il consenso dell'elettorato indipendente e l'appoggio, per quello che vale, di una parte importante del mondo giornalistico e intellettuale conservatore. McCain sconta anche un rapporto non idilliaco con la stampa severa con lui, si veda l'ultima polemica sul guardaroba della Palin pagato dal Partito repubblicano, tanto quanto indulgente con Obama. Altro elemento a suo sfavore è sicuramente il fattore immagine che ha contato molto durante i tre dibattiti pre-elettorali e che innegabilmente ha influenzato l'intera campagna. Cosa può l'effettiva esperienza del vecchio veterano del Vietnam contro la sicurezza, l'oratoria e il fascino hollywoodiano del senatore nero?
Per la verità i faccia a faccia di Oxford, Nashville e New York e quello di St. Louis tra i vice Palin e Biden si sono chiusi tutti con un sostanziale pareggio che ha finito per favorire il candidato in vantaggio Obama. I temi centrali degli incontri sono stati la crisi finanziaria, la politica fiscale e la politica estera. La crisi di Wall Street ha cambiato inevitabilmente il corso della campagna elettorale per la Casa Bianca e nonostante nessuno dei due contendenti sia apparso particolarmente attrezzato per fronteggiare un evento di tale portata, il senatore dell'Illinois si è mostrato più deciso e convincente facendo della crisi il suo principale alleato. Secondo Obama e Biden all'origine della crisi ci sono le politiche liberiste promosse da Bush e approvate da McCain e poco importa se fu per prima proprio l'amministrazione Clinton a premere per allargare la concessione dei mutui anche a coloro che non offrivano adeguate garanzie e a sostenere la deregulation. Dai sondaggi emerge che gli americani giudicano i democratici più adatti a gestire l'economia in un momento come questo. L'idea di un maggiore intervento pubblico, idea alla base del piano di salvataggio delle banche voluto dall'Amministrazione Bush e approvato in maniera bipartisan, rappresenta un punto importante del programma di Obama, si pensi alle proposte riguardanti il sistema sanitario, e questo rafforza presso l'opinione pubblica il convincimento che sia l'uomo giusto per affrontare le conseguenze di fatti così traumatici per l'economia americana. Da Toledo in Ohio, uno degli Stati chiave nella corsa per la Presidenza, uno dei più colpiti dalla crisi finanziaria, Obama ha presentato un pacchetto di proposte di sostegno alla classe media che costerà alle casse federali 60 miliardi di dollari in due anni. Uno sgravio fiscale di tremila dollari per ciascun nuovo posto di lavoro creato, misura questa in realtà già presente nel programma di McCain, abolizione delle tasse di capital gain sugli investimenti in piccole imprese, proroga temporanea dei sussidi di disoccupazione, sospensione di 90 giorni sui pignoramenti delle case i cui proprietari hanno ricevuto mutui dalle banche garantite dallo Stato, possibilità di prelevare fino a 10 mila dollari dai risparmi pensionistici senza penalizzazioni fiscali, sono questi i provvedimenti che Obama ha in animo di adottare nel caso fosse eletto. Misure concrete che lo hanno fatto apparire competente e adatto a fronteggiare la situazione. In campo repubblicano McCain rimane legato alla proposta che il governo federale acquisti i mutui a rischio per rinegoziarli con i proprietari delle case a tassi più vantaggiosi. Nessuna novità.
Anche in politica estera, uno dei terreni più adatti a McCain, Obama ha dimostrato di essere competitivo, ironia della sorte, avvicinandosi di molto alle posizioni repubblicane. Promette di impedire all'Iran di farsi un'arma nucleare e di schierare in Afghanistan le truppe ritirate da quell'Iraq che, sebbene nessuno ne parli più, si giova oggi del cambio di strategia politico-militare voluto da Bush, sostenuto da McCain e avversato proprio da Obama.
Al di là del rafforzamento del profilo politico, il candidato democratico può contare ciecamente in quella macchina da guerra rappresentata dalla sua strategia elettorale. Obama è riuscito a superare la divisione interna al suo partito dovuta al protrarsi della sfida tra lui e la Clinton, ha saldato al suo elettorato storico (indipendenti, giovani e afroamericani) quello della ex rivale (donne, ispanici e classe media). In questi giorni prima Hillary poi persino quel Bill Clinton che definì Obama una favoletta per bambini, sono scesi in campo al suo fianco. Tutti uniti per cercare di strappare ai repubblicani la Florida, uno degli Stati in bilico, nonché roccaforte dei Bush. Secondo lo stratega democratico Rahm Emanuel di qui al 4 novembre Obama non smetterà di attaccare, è pronta una valanga di spot e la sua vasta e capillare rete di volontari, sono oltre un milione, darà vita all'operazione «Knock&Drag», bussa alla porta e trascinali alle urne. Le sue risorse finanziarie sono di gran lunga superiori a quelle di McCain e gli permettono di investire molto negli Stati di orientamento repubblicano costringendo il senatore dell'Arizona alla difesa.
Il candidato del Gop mantiene la leadership tra gli elettori maschi, bianchi, anziani, cattolici e ricchi ma è evidente che non basta. La strategia aggressiva di denunciare i rapporti personali di Obama con l'immobiliarista accusato di frode e riciclaggio Tony Retzko, con l'ex terrorista anarchico Ayers o con il leader islamista Farrakhan non ha pagato, anzi si è rivelata controproducente. E mentre si dava grande risalto all'autentica tegola della condanna della Palin in Alaska per abuso di potere o a Joe the plumber passato nel giro di poche ore da esempio di lavoratore e contribuente americano ad evasore, passavano sotto silenzio notizie in grado di creare serie difficoltà ad Obama: i rapporti tra il candidato democratico e Acorn, l'associazione che si occupa della registrazione di nuovi elettori sotto inchiesta per brogli, la sua presunta iscrizione al Partito socialista, la collaborazione lavorativa tra Michelle Obama e la moglie di Ayers, i rapporti di alcuni del suo staff con gruppi vicini ad Hamas o ai Fratelli Musulmani.
Come se non bastasse McCain deve fronteggiare l'emorragia dei cosiddetti Obamacons, editorialisti e intellettuali conservatori di varia estrazione che lo hanno abbandonato per schierarsi con Obama. Un cambio che, se pure elettoralmente poco influente, suona come un sinistro trasferimento sul carro del presunto vincitore, proprio contemporaneamente all'endoresement ufficiale di Colin Powell, ex segretario di Stato repubblicano, per il senatore afroamericano. Per Powell, che sta ad Obama come Joe Lieberman, già candidato democratico alla Vicepresidenza nel 2000, sta a McCain, sarebbe pronto un incarico nell'amministrazione. Si vocifera che Obama manterrebbe anche altri due nomi di Bush, Henry Paulson al Tesoro e Bob Gates al Pentagono.
Fresh face Barack Obama sembra dunque marciare spedito verso la Casa bianca. Da quando è senatore, meno di quattro anni, ha lavorato diligentemente alla sua candidatura, ha seguito i dettami del partito con fedeltà non comune, ha evitato con attenzione qualunque presa di posizione che potesse nuocere al suo futuro di candidato democratico alla Presidenza. Tutto finora gli è stato favorevole ma ci sono alcuni che giurano ci possa essere sulla sua strada un insidioso ostacolo. Si tratta del cosiddetto fattore razziale. Secondo Michael Frauntroy, docente universitario della George Mason University, autore di un volume sul partito repubblicano e l’elettorato nero, sarebbero quasi 6 su cento gli elettori che oggi si dicono a favore di Obama ma che in realtà non lo voterebbero per via del colore della sua pelle.
In attesa di vedere se l'effetto Bradley farà la sua vittima più eccellente, quella riassunta nella figura qui sotto (fonte CNN) è la situazione ad una settimana dal voto. Non ci sono molti dubbi e in realtà ne rimangono ancora meno se si considera che, stando agli ultimi sondaggi, Obama sarebbe in vantaggio in Virginia, Missouri, North Carolina, Nevada e Ohio, tutti Stati che nel 2004 andarono a Bush decretandone la vittoria contro Kerry. Solo due degli Stati chiave andrebbero a McCain, West Virginia e Indiana, in Florida i due candidati sono entrambi al 47%. Il finale di questa lunga storia sembra già scritto e forse lo è davvero. Non resta che aspettare una sola settimana.

Segnalo un paio di titoli:

di Giuliano Da Empoli, “Obama. La politica nell'era di facebook”, Marsilio;

di Federico Leoni, Moreno Marinozzi, Daniele Moretti con una nota di Emilio Carelli “John McCain - tutte le guerre di maverick”, UTET.

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