Il legame tra l'emergenza cibo e i biocarburanti è stato uno dei temi principali e più controversi di cui si è discusso nel vertice Fao sull'alimentazione che si conclude quest'oggi a Roma. Questo post del settembre scorso cercava di mettere in risalto le ricadute della sempre maggiore destinazione di terra alle colture per la produzione di etanolo e biodiesel, su ambiente e mercato alimentare.
E’ già successo e ce ne siamo accorti tutti. Il pane, la pasta e tutti i derivati del grano hanno subito un rincaro medio del 20 per cento, a sua volta il prezzo della semola di grano duro è salito del 50 per cento sul mercato internazionale, da dove importiamo poco meno della metà del fabbisogno delle nostre industrie, e del 30 per cento sul mercato nostrano.
Le cause di questa impennata dei prezzi sono molteplici: l’annata pessima dal punto di visto meteorologico, l’incremento demografico e l’accresciuta richiesta di grano da parte dei mercati di Cina ed India, ma soprattutto la destinazione di terra alla coltivazione del mais a scapito di altre colture per la produzione di etanolo. L’etanolo è un carburante di origine vegetale, che si ottiene dalla lavorazione delle pannocchie di granturco, le cui emissioni sono a basso impatto ambientale e su cui è stata avviata una massiccia sperimentazione. Il raddoppio del prezzo del granturco e le previsioni di una crescita della domanda per far fronte alla richiesta di etanolo hanno indotto gli agricoltori ad abbandonare prodotti meno redditizi come il grano e a intraprendere la coltivazione del mais, della canna da zucchero o dei girasoli da cui si ricava l’altro ecocarburante, il biodiesel. L’offerta degli altri prodotti si è così ristretta: la Siria, il Canada, l’Australia hanno ridotto drasticamente l’export di grano e si assiste ad una massiccia speculazione sui rincari. Secondo il Fondo Monetario Internazionale l’etanolo ha prodotto uno “shock macroeconomico” che avrà effetti ben più importanti che i rincari sulla pasta.
Iniziamo da un aspetto singolare della vicenda, se la destinazione di mais per la produzione di etanolo è in forte crescita, diminuisce quella per il suo uso tradizionale che coinvolge un numero altissimo di prodotti: dalle bevande all’olio, dalla farina alla lecitina, dai pannolini ai sacchi della spazzatura, dai dentifrici alle batterie per non parlare del suo utilizzo per l’alimentazione di polli, tacchini, maiali, mucche e persino salmoni. L’aumento dei prezzi sarà dunque generalizzato e investirà tutto l’ambito alimentare a qualunque latitudine.
Se Gian Domenico Auricchio, presidente di Federalimentare, denuncia aumenti dei costi nell'industria italiana del 20 per cento per le uova, del 50 per cento per il burro, del 20-40 per cento per le carni, Peter Brabeck, presidente della multinazionale Nestlè, parla di rincari sostanziali per i prezzi di cacao, zucchero e latte. Ma allarmi ancora più seri arrivano da OCSE e World Food Programme. L’OCSE parla di una impennata del 50 per cento nei prossimi 10 anni per i prezzi di carne di manzo e di maiale e latte in polvere intero a fronte di un aumento del ben 70 per cento del volume degli scambi degli oli vegetali. Il World Food Programme, l'organizzazione Onu per gli aiuti alimentari, dichiara di non essere più in grado, all'attuale livello dei prezzi internazionali, di mantenere i suoi programmi. Secondo l'International Food Policy Research Institute di Washington la sola corsa dell'agricoltura ai biocarburanti, da qui al 2010, farà crescere i prezzi del granturco del 20 per cento, della soia del 26 per cento, del grano dell'11 per cento, della manioca (il cibo base in Africa e in Sud America) del 33 per cento. Del doppio o del triplo al 2020. A questi prezzi si stima che il numero delle persone che, nel mondo, soffrono la fame, invece di scendere a 600 milioni nel 2025, come ci si aspettava, sarà del doppio, 1 miliardo e 200 milioni e tutto ciò è ancora più agghiacciante se si pensa che per riempire il serbatoio di un fuoristrada di solo etanolo occorrono oltre 200 chili di granturco, ovvero il fabbisogno di calorie di una persona per un anno.
Ad avere scatenato la corsa alle coltivazioni utili per i biocarburanti sono state in realtà scelte politiche ben precise: l'Unione europea si è fissata l'ambizioso obiettivo di sostituire con ecocombustibili, entro il 2020, almeno il 10 per cento della benzina e del gasolio che consumano le sue macchine, portando la produzione di semi oleosi dai 10 milioni di tonnellate attuali, a 21 milioni. Gli Stati Uniti prevedono di produrre, entro il 2017, 35 miliardi di galloni di etanolo garantendo fin da subito, attraverso il cosiddetto Farm Bill, diversi sussidi alle colture destinate alla produzione di biocarburante. In Brasile, le proiezioni danno per il 2016 una produzione annuale di etanolo di circa 44 miliardi di litri, rispetto ai 21 miliardi prodotti oggi. In Cina, dove attualmente la produzione si aggira intorno ai 3,8 miliardi di litri, si prevede un aumento di 2 miliardi di litri.
Ma, viene da chiedersi di fronte a tutto questo, se il gioco vale la candela. Qual è l’effettiva portata anti-inquinamento dell’utilizzo dei biocarburanti? Innanzitutto c’è da dire che gli investimenti messi in atto nell’agricoltura e nell’industria hanno senso solo all’attuale prezzo del petrolio ma in futuro, la produzione di biocarburanti, potrebbe consumare più energia di quella che poi essi effettivamente restituiscono. Inoltre se gli effetti della corsa alle coltivazioni utili per i biocarburanti sono già, ahinoi, tangibili, i loro presunti benefici sono di là da venire, nel caso degli Stati Uniti un impatto considerevole sulle emissioni si avrebbe solo se si raggiungesse la quota di produzione di 35 miliardi di galloni di etanolo, peccato che, secondo la rivista Bioscience, ciò sia possibile solo coltivando a granturco un quarto dell’intero territorio nazionale città escluse.
Se questo non bastasse, altre ombre su quella che sembrava la panacea anti-inquinamento vengono gettate da uno studio di Renton Righelato, della World Land Trust (agenzia per la conservazione delle foreste pluviali), e Dominick Spracklen dell’Università di Leeds, in Gran Bretagna. Il loro studio mette in evidenza come per smaltire le emissioni di anidride carbonica dovute al ciclo produttivo dei biocarburanti occorrerà un tempo stimato tra il 50 e i 100 anni. Troppi. Decisamente. Inoltre il rischio, già per alcuni versi in atto, è quello di sottrarre alle foreste lo spazio che serve per coltivare i vegetali da biocarburanti. Per evitare il danno dell’eccesso da inquinamento se ne creano svariati altri e peggiori…
L’intera vicenda dei biocarburanti va, alla luce di tutto questo, completamente ridisegnata. Ad esempio prendendo in considerazione la possibilità di miscelare ai carburanti fossili, etanolo e biodisel, in modo da ridurre drasticamente il fabbisogno di questi ultimi e raggiungere comunque l’obiettivo di un certo abbattimento delle emissioni di anidride carbonica. Lo stesso risultato si avrebbe producendo l’etanolo non solo dalla pannocchia ma dall’intera pianta di granturco o dagli scarti vegetali così da consentire di ridurre l’impatto sui prezzi. Tecnicamente, ricorrendo a speciali enzimi, è già possibile ma ancora troppo costoso, sia rispetto alla benzina che all'attuale etanolo da pannocchia. Sul fronte dei biocarburanti ci attende quindi un lungo periodo di sperimentazione, speriamo che porti davvero a qualcosa e che non ci costi così come sembra.
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