martedì 20 maggio 2008

Hillary lotta appesa a un filo

Obama parla ormai da candidato alla Presidenza. Hillary non si arrende e, nonostante il divario pressocché incolmabile in termini di delegati conquistati, rilancia con il recupero del voto in Michigan e in Florida e con il pressing sui superdelegati, sempre più vicini al suo avversario. McCain parla di Iraq, Lega delle democrazie e temi economici, alla ricerca di una sempre più solida legittimazione da parte dell'elettorato repubblicano, senza mancare di strizzare l'occhio agli indipendenti e ai democratici, stanchi di quella che l'Economist ha efficacemente definito come la lunga guerra civile democratica.
Questa, in estrema sintesi, la situazione relativa alla corsa alla Casa Bianca a pochi giorni dalla conclusione del lungo ciclo delle elezioni primarie, il 3 giugno, con il voto di Montana, New Mexico e South Dakota.
Le ultime tornate hanno visto la prevalenza della Clinton in Pennsylvania (55% dei voti contro il 45% di Obama), West Virginia (67% a 26) e di misura in Indiana (51% contro il 49% del senatore dell'Illinois). Obama ha incassato la pesante vittoria del North Carolina (56% a 42). In Pennsylvania e in Indiana la Clinton ha ottenuto il voto di bianchi, over-60, classe media, popolo rurale e di tutti coloro che hanno ritenuto determinante la vicenda del rapporto tra Obama e il reverendo Wright; il senatore dell'Illinois conquista, come al solito, il voto dei radical-chic, dei giovani e degli afroamericani che votano per lui al 91%. In North Carolina lo scenario è grosso modo lo stesso, qui Obama è riuscito a raggiungere la Clinton sui temi economici. In West Virginia è stato determinante il fattore razziale. Il contatore dei delegati segna 1.909 per il senatore afroamericano, 1.718 per la sua avversaria (dati CNN).
Forte del vantaggio sui delegati, sul voto popolare, sul numero di Stati vinti, sulla capacità attrattiva esercitata sui superdelegati rispetto alla Clinton (dopo la vittoria in North Carolina, 27 superdelegati hanno scelto lui, contro uno solo che ha invece optato per la senatrice di New York), Obama si presenta già come il vincitore della nomination: «Abbiamo la nomination, il partito non è diviso e verrà compatto dietro di me». Il suo fundraising da un milione di dollari al giorno, l'endoresement di Elizabeth Murdoch, figlia del magnate dell'editoria, Rupert, quello del regista Michael Moore e soprattutto il preziosissimo appoggio dell'ex candidato alla presidenza John Edwards (si vocifera persino di un ticket presidenziale), contribuiscono a rilanciare un'immagine un po' appannata dai casi Wright e Rezko, da quello del rapporto con il bombarolo Ayers e dal probabile endoresement di Jimmy Carter che nei giorni scorsi ha incontrato alcuni esponenti di Hamas appoggiando il dialogo con la formazione terroristica palestinese, linea avversata, non senza qualche contraddizione, dallo stesso Obama.
La strategia del senatore dell'Illinois lo vede impegnato in queste ore a scrollarsi di dosso l'etichetta di campione di un'élite intellettuale per accreditarsi sempre più come leader che unisce, in grado di rappresentare l'elettorato democratico e non solo, nonostante le sue caratteristiche di uomo della sinistra tra i più ortodossi. Lo sforzo principale è rivolto alla classe media. Obama è tornato a parlare di lotta alla povertà e alla disoccupazione, di creazione di nuovi posti di lavoro, parole che assumono una grande importanza se pronunciate al fianco di un personaggio particolarmente amato da operai ed impiegati come John Edwards. Secondo molti Obama avrebbe già in tasca la nomination se avesse saputo far presa precedentemente su questo segmento elettorale, sul quale si gioca la sfida con il repubblicano McCain.
Hillary Clinton è ormai in trincea. Da settimane schiva i colpi del fuoco amico di un Partito democratico orientato a favorire la linea secondo cui, se al 3 giugno nessuno dei due candidati dovesse aver raggiunto il numero di 2.025 delegati, necessari per la nomination, i superdelegati indecisi dovrebbero scegliere quello che ha al suo attivo il maggior numero di delegati eletti su base popolare. La cosa favorirebbe senza dubbio Obama.
La ex first lady fa valere la sua vittoria in quasi tutti i grandi Stati (Ohio, Pennsylvania, Florida, Michigan e West Virginia) e nelle roccaforti decisive contro i repubblicani. Punta inoltre a rendere valido il voto di Florida e Michigan. I due Stati avevano votato in gennaio a maggioranza per la Clinton ma non avevano espresso delegati perché puniti dal partito per aver anticipato la data delle primarie. Il 31 maggio un comitato di 30 membri, tra i quali la Clinton ha importanti appoggi, deciderà se e in che modo i 366 potenziali delegati saranno assegnati.
Al di là di questi pur validi argomenti, la strada della senatrice di New York è tutta in salita. Il distacco da Obama sembra incolmabile, i fondi per continuare la campagna elettorale scarseggiano (è stata costretta ad attingere dal patrimonio personale per altri 6,4 milioni di dollari) e nonostante la sua virata populistica per ricompattare dietro di sé la classe media, in Indiana ha perso pezzi importanti del suo elettorato storico.
Il protrarsi della guerra tra Clinton e Obama impensierisce oltremodo la dirigenza democratica. Il presidente del comitato nazionale, Howard Dean, ha invitato i superdelegati a rendere pubblico il proprio supporto all'uno o all'altro candidato entro il primo luglio, trascinare la decisione fino alla Convention di Denver di fine agosto aggraverebbe quel processo di logoramento già in atto. Secondo un sondaggio del centro studi Pew research, il 50% degli statunitensi giudica negativamente i toni del confronto tra i due senatori democratici, un sondaggio diffuso qualche giorno fa dalla NBC, invece, mette in risalto come una parte importante dell'elettorato dei due frontrunner democratici (il 30% di quello della Clinton, il 22% di quello di Obama) sarebbe pronta a votare per McCain se il candidato alla presidenza non fosse quello che sostengono. La strada da percorrere fino a novembre è ancora lunga e questa tendenza, con molte probabilità, non avrà la consistenza che ha oggi, ma il segnale per i democratici non è incoraggiante tantopiù che la migliore via d'uscita dall'empasse, il ticket Clinton-Obama, è divenuta oggettivamente impraticabile.
Continua a ringraziare il senatore John McCain che, conquistata ormai da tempo la nomination ufficiale, gode di un sostegno sempre più solido, anche se non unanime, all'interno del GOP. Il suo profilo da repubblicano non convenzionale gli ha permesso inoltre di accattivarsi le simpatie degli indipendenti e dei democratici delusi. Tra loro Joe Lieberman, candidato alla Vice Presidenza alle elezioni del 2000 al fianco di Al Gore.
Passa invece per Mitt Romney l'ancoraggio ai valori del GOP. L'avversario di un tempo, ex governatore del Massachusetts, ora possibile candidato vicepresidente, potrebbe portare a McCain voti sufficienti a strappare lo Stato ai democratici e grosse possibilità di successo in Utah e Colorado. Inoltre il suo patrimonio miliardario sarebbe una garanzia per le malconce casse del senatore dell'Arizona.
McCain ha dalla sua il vantaggio di dover combattere su un solo fronte. La sua campagna elettorale sta affrontando con realismo e con un approccio innovativo tutti i temi cari ai neocon partendo dalla guerra in Iraq. Nell'audizione al Congresso, il generale David Petraeus ha spiegato che se si vuole garantire la sicurezza e registrare nuovi progressi, non è questo il momento di abbandonare l'Iraq né di ridurre eccessivamente le truppe. McCain, in aperto contrasto con i suoi avversari, parla da tempo di non arretrare e di rimanere a Baghdad fino al 2013, dando l'impressione di essere l'unico a dire la verità sulla questione della guerra. Conferma l'impegno sulla lotta al terrorismo e propone di dar vita ad una Lega delle democrazie, un organismo che affronti le questioni internazionali in maniera più rapida ed efficace rispetto alle Nazioni Unite. Vuole l'ampliamento del G8 a India e Brasile e promette la chiusura di Guantanamo. Le priorità, in politica interna, sono il rilancio dell'economia e il raggiungimento dell'indipendenza dalle importazioni di petrolio, la garanzia di un confine meridionale sicuro e maggiore trasparenza nell'attività politica del Presidente.
Un McCain, insomma, che più competitivo e determinato che mai, attende solo di conoscere finalmente il nome del suo avversario e davvero potrebbe non mancare molto.


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