Il caso della riammissione in via cautelativa della Dc di Giuseppe Pizza (chi?) ha rischiato di prolungare di due settimane, forse di più, la noia tombale di questa campagna elettorale ma ha anche minacciato di costituire un precedente assolutamente sinistro in grado di sottoporre la democrazia al ricatto dei micro-partiti. La storia era iniziata con l'esclusione da parte del Ministero dell'interno, del simbolo della Dc dalla corsa elettorale, giudicato troppo simile a quello dell'Udc di Casini. Pizza si era rivolto alla Corte di Cassazione prima e al Tar del Lazio poi, per ottenere la riammissione del proprio partito con esiti a lui ancora sfavorevoli, aveva deciso così di ricorrere in appello al Consiglio di Stato che invece gli ha consentito di poter partecipare in via cautelativa, permettendo cioè al suo partito di prendere parte alle elezioni ma rinviando al Tar del Lazio la pronuncia sul merito della questione. Il ritorno dello scudo crociato aveva gettato nello sconforto il Viminale, la Presidenza del Consiglio e i partiti dell'intero arco costituzionale in quanto Pizza avrebbe potuto chiedere il recupero dei giorni di campagna elettorale non utilizzati per l'ingiusta esclusione, provocando così uno slittamento della data del voto con danni in termini di costi e di immagine per il Paese.
Il Ministero dell'interno si è subito attivato chiedendo la revoca dell'ordinanza della V sezione del Consiglio di Stato e, contemporaneamente, una pronuncia della Corte di Cassazione che chiarisca chi ha la competenza a decidere in materia di processo elettorale. L'argomento forte, direi inattaccabile, per non cedere alle richieste di rinvio del voto avanzate in un primo momento, sarebbe stato quanto disposto dall'articolo 61 della Costituzione che impone che le elezioni si tengano inderogabilmente entro il 70esimo giorno dallo scioglimento delle Camere.
A far tirare a tutti un sospiro di sollievo è arrivato, nel primo pomeriggio di ieri, l'annuncio che Pizza rinunciava ai giorni di campagna elettorale già trascorsi e, bontà sua, facendo appello al suo senso dello Stato, non avrebbe avanzato pretese di recupero. Restava altresì fermo il proposito di avere, nonostante la campagna elettorale decurtata, il proprio simbolo sulla scheda del Senato in quelle regioni in cui la formazione si presenta. Questo, se ha allontanato definitivamente lo spettro di un rinvio della data del voto o, peggio, di una richiesta di invalidare le elezioni una volta che queste si fossero tenute, lascia sul tappeto un paio di questioni irrisolte. La prima, del tutto procedurale, riguarda la ristampa delle schede e il voto degli italiani all'estero. La Dc di Giuseppe Pizza non è presente nella circoscrizione estero, pertanto le schede che gli italiani residenti in Paesi stranieri hanno utilizzato per il voto andavano bene così com'erano. Il problema è sorto invece per le schede che gli italiani temporaneamente all'estero hanno già cominciato a votare. Si tratta di militari, diplomatici, ricercatori, docenti universitari che hanno votato o stanno votando per corrispondenza con schede senza il simbolo della Dc per il Senato, il cui voto verrà computato non nella circoscrizione estero, come accadde due anni fa, ma nelle circoscrizioni italiane di appartenenza. Sarebbe e nei fatti sarà, vista la difficile soluzione di questo pasticcio da parte del Viminale, la prima volta che si realizza una disparità elettorale fra i cittadini. Per tutte le altre schede per il Senato è iniziata la corsa contro il tempo per la ristampa che avrà costi non indifferenti.
In realtà il Ministero dell'Interno ha avuto più di una colpa in questa vicenda sin dall'inizio, perché proprio non si capisce per quale motivo vi è stata l'ammissione di cinque o sei simboli con la falce e il martello, molto simili tra loro, e di contro non si sia ammessa la presenza di più scudi crociati.
La seconda questione a cui facevo riferimento è tutta politica. La vicenda di Pizza e del suo partito è emblematica di quella che Massimo Teodori stamattina sul Giornale chiama degenerazione partitocratica, che costringe il governo e i massimi organi giudiziari e costituzionali, oltre alle forze politiche di primo piano, a fare i conti con siffatte miserevoli vicende nel pieno di una campagna elettorale in cui si dovrebbero decidere le sorti del Paese. Una vicenda che ha rischiato di far prevalere il diritto personale del signor Pizza di presentare il proprio simbolo, contro quello di un intero Paese di avere un governo forte dei suoi pieni poteri.
Il Ministero dell'interno si è subito attivato chiedendo la revoca dell'ordinanza della V sezione del Consiglio di Stato e, contemporaneamente, una pronuncia della Corte di Cassazione che chiarisca chi ha la competenza a decidere in materia di processo elettorale. L'argomento forte, direi inattaccabile, per non cedere alle richieste di rinvio del voto avanzate in un primo momento, sarebbe stato quanto disposto dall'articolo 61 della Costituzione che impone che le elezioni si tengano inderogabilmente entro il 70esimo giorno dallo scioglimento delle Camere.
A far tirare a tutti un sospiro di sollievo è arrivato, nel primo pomeriggio di ieri, l'annuncio che Pizza rinunciava ai giorni di campagna elettorale già trascorsi e, bontà sua, facendo appello al suo senso dello Stato, non avrebbe avanzato pretese di recupero. Restava altresì fermo il proposito di avere, nonostante la campagna elettorale decurtata, il proprio simbolo sulla scheda del Senato in quelle regioni in cui la formazione si presenta. Questo, se ha allontanato definitivamente lo spettro di un rinvio della data del voto o, peggio, di una richiesta di invalidare le elezioni una volta che queste si fossero tenute, lascia sul tappeto un paio di questioni irrisolte. La prima, del tutto procedurale, riguarda la ristampa delle schede e il voto degli italiani all'estero. La Dc di Giuseppe Pizza non è presente nella circoscrizione estero, pertanto le schede che gli italiani residenti in Paesi stranieri hanno utilizzato per il voto andavano bene così com'erano. Il problema è sorto invece per le schede che gli italiani temporaneamente all'estero hanno già cominciato a votare. Si tratta di militari, diplomatici, ricercatori, docenti universitari che hanno votato o stanno votando per corrispondenza con schede senza il simbolo della Dc per il Senato, il cui voto verrà computato non nella circoscrizione estero, come accadde due anni fa, ma nelle circoscrizioni italiane di appartenenza. Sarebbe e nei fatti sarà, vista la difficile soluzione di questo pasticcio da parte del Viminale, la prima volta che si realizza una disparità elettorale fra i cittadini. Per tutte le altre schede per il Senato è iniziata la corsa contro il tempo per la ristampa che avrà costi non indifferenti.
In realtà il Ministero dell'Interno ha avuto più di una colpa in questa vicenda sin dall'inizio, perché proprio non si capisce per quale motivo vi è stata l'ammissione di cinque o sei simboli con la falce e il martello, molto simili tra loro, e di contro non si sia ammessa la presenza di più scudi crociati.
La seconda questione a cui facevo riferimento è tutta politica. La vicenda di Pizza e del suo partito è emblematica di quella che Massimo Teodori stamattina sul Giornale chiama degenerazione partitocratica, che costringe il governo e i massimi organi giudiziari e costituzionali, oltre alle forze politiche di primo piano, a fare i conti con siffatte miserevoli vicende nel pieno di una campagna elettorale in cui si dovrebbero decidere le sorti del Paese. Una vicenda che ha rischiato di far prevalere il diritto personale del signor Pizza di presentare il proprio simbolo, contro quello di un intero Paese di avere un governo forte dei suoi pieni poteri.
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