di Emilio Ranieri
Quando sento parlare di grandi opere infrastrutturali, il mio primo approccio è critico. Mi domando se sono finalizzate ad aprire nuovi orizzonti di sviluppo (le infrastrutture dovrebbero precedere e favorire lo sviluppo) o se sono finalizzate a sanare errori del passato. Nelle città, molto spesso, hanno questo secondo fine.
Allora mantengo, nell’approfondimento, l’approccio critico iniziale, perché spesso ad esse si attribuisce un compito risolutivo di problemi complessi, generati dalla stratificazione di scelte spesso contraddittorie o quantomeno non coordinate compiute negli anni. Soprattutto con una grande opera, che generalmente ha la caratteristica di essere pressoché concentrata in un punto del territorio, ci si propone di risolvere problemi che viceversa interessano vaste aree urbane. Allora la grande opera rischia di diventare solo una ulteriore, dispendiosa, cicatrice nella città.
Leggo che nei giorni scorsi l’amministrazione comunale di Bari ha pubblicato un bando per la realizzazione di un ponte retto da cavi d’acciaio, necessario a saltare una zona abitata che in passato era una zona di campagna e che oggi invece è densamente popolata e per di più tagliata in due dalla ferrovia.
Siccome sogno di percorrere la mia città, come mi è capitato di fare in altre città d’Europa, senza saltare zone abitate e tagli ferroviari, ma fluidamente in un reticolo viario che a volte ti sorprende con successivi gradevoli e inaspettati scenari urbani, mi domando se alcuni di questi ostacoli da saltare, non potrebbero essere rimossi.
Allora, magari, la grande opera, anche mediaticamente grande, diventerebbe semplicemente e meravigliosamente un’opera, parte di un ordinario, ordinato, naturale, razionale divenire di una città.
Quando sento parlare di grandi opere infrastrutturali, il mio primo approccio è critico. Mi domando se sono finalizzate ad aprire nuovi orizzonti di sviluppo (le infrastrutture dovrebbero precedere e favorire lo sviluppo) o se sono finalizzate a sanare errori del passato. Nelle città, molto spesso, hanno questo secondo fine.
Allora mantengo, nell’approfondimento, l’approccio critico iniziale, perché spesso ad esse si attribuisce un compito risolutivo di problemi complessi, generati dalla stratificazione di scelte spesso contraddittorie o quantomeno non coordinate compiute negli anni. Soprattutto con una grande opera, che generalmente ha la caratteristica di essere pressoché concentrata in un punto del territorio, ci si propone di risolvere problemi che viceversa interessano vaste aree urbane. Allora la grande opera rischia di diventare solo una ulteriore, dispendiosa, cicatrice nella città.
Leggo che nei giorni scorsi l’amministrazione comunale di Bari ha pubblicato un bando per la realizzazione di un ponte retto da cavi d’acciaio, necessario a saltare una zona abitata che in passato era una zona di campagna e che oggi invece è densamente popolata e per di più tagliata in due dalla ferrovia.
Siccome sogno di percorrere la mia città, come mi è capitato di fare in altre città d’Europa, senza saltare zone abitate e tagli ferroviari, ma fluidamente in un reticolo viario che a volte ti sorprende con successivi gradevoli e inaspettati scenari urbani, mi domando se alcuni di questi ostacoli da saltare, non potrebbero essere rimossi.
Allora, magari, la grande opera, anche mediaticamente grande, diventerebbe semplicemente e meravigliosamente un’opera, parte di un ordinario, ordinato, naturale, razionale divenire di una città.
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