Le leggi razziali del 1938 rappresentano senza dubbio una delle pagine più vergognose della storia italiana. La loro promulgazione fu legata essenzialmente a ragioni di mera convenienza e la loro applicazione fu tutt'altro che profonda e sistematica, ma questo non ci assolve. Anzi.
Enzo Collotti, uno dei massimi storici contemporaneisti italiani che si è occupato in particolare dello studio comparato dei totalitarismi europei, in occasione dell'uscita del suo libro Il fascismo e gli ebrei – Le leggi razziali in Italia edito da Laterza, parla di una distinzione netta tra la situazione tedesca e quella italiana. In Germania l'importanza dell'antisemitismo e del razzismo all'interno del regime nazista è molto più centrale rispetto a quella che avrebbe avuto nell'economia del fascismo italiano a partire dalle diverse tradizioni dell'antisemitismo fino ad arrivare alla collocazione sociale degli Ebrei che nel nostro Paese, a differenza della Germania, era di quasi totale assimilazione al resto della popolazione e, per la stragrande maggioranza, di appartenenza ad un ceto medio o medio-basso senza escludere un'ampia fascia di proletariato. Dietro l'esperienza tedesca c'era un'elaborazione teorica molto approfondita e una strategia di lungo periodo a cui corrispose un'applicazione puntuale dei provvedimenti che condussero alla soluzione finale. L'adozione delle leggi razziali in Italia, ribadisce Collotti, fu dettata invece da strumentalizzazioni di tipo politico che non portarono mai alla realizzazione di quegli eccessi che caratterizzarono non solo la Germania, ma anche altri Paesi occupati o collaborazionisti come la Francia.
L'obiettivo principale degli italiani era quindi compiacere l'alleato tedesco che, lungi dall'imporla, accolse con favore l'introduzione dei provvedimenti antisemiti. Lo spirito con cui il regime prese questa decisione ricorda da vicino quello che avrebbe avuto al momento dell'entrata in guerra: un mix di superficialità e calcolo. Come il governo italiano, avallato dalla monarchia, era convinto di prendere parte ad un conflitto di fatto già terminato e di trarne solo vantaggi, così nella questione delle leggi razziali rimase del tutto non curante dei reali effetti che provvedimenti così scellerati avrebbero potuto avere. La sostanziale sciatteria con cui le sanzioni contro la comunità ebraica vennero applicate non alleggerisce le gravi colpe che la casa regnate e il governo ebbero in questa vicenda.
Per la prima volta le leggi razziali revocavano l'emancipazione di una parte della popolazione non solo dal punto di vista giuridico, ma anche da quello sociale e culturale, il regime colpiva dei cittadini indipendentemente dalla loro opposizione politica ma solo per il fatto di esistere. L'antisemitismo di Stato, fomentato massicciamente dalla stampa, attecchiva in un Paese che aveva già vissuto l'esperienza del razzismo nei confronti delle popolazioni africane. Il precedente del razzismo coloniale agevolava in qualche modo il sentimento di razzismo antisemita, l'ebreo non era quindi perseguitato perché appartenente ad una religione ma era perseguitato in quanto tale.
Questo sentimento prese piede e sebbene, lo ricordo ancora, l'applicazione delle leggi razziali rimase generalmente superficiale, l'antisemitismo di Stato poté contare sulla collaborazione più o meno vasta di segmenti della società italiana ed ebbe sacche di tragica efficienza.
Annalisa Capristo nel suo libro L'espulsione degli Ebrei dalle accademie italiane edito da Silvio Zamorani, conduce un'analisi puntuale dell'epurazione antisemita all'interno delle accademie e delle università italiane. Il progetto di arianizzazione voluto dal ministro dell'Educazione nazionale Giuseppe Bottai partì con alcune rilevazioni già all'inizio del 1938, quando la svolta razzista del regime non era ancora ufficiale, e proseguì con un censimento condotto all'interno di scuole, università e accademie che aveva lo scopo di appurare quanti tra gli intellettuali fossero ebrei. Nel frattempo un regio decreto del 5 settembre 1938 stabiliva che i membri di razza ebraica delle varie istituzioni culturali cessassero di farne parte. L'epurazione può considerarsi conclusa già nei primi mesi del 1939. Le vittime del provvedimento furono 676. L'intero progetto fu portato a termine velocemente e con cura grazie anche all'appoggio che esso ebbe all'interno delle università da parte di dirigenti e docenti.
E' vero che l'esempio di quanto accadde nell'ambito dell'Istruzione rimase circoscritto e fu dovuto sostanzialmente all'impegno di uno come Bottai che più che razzista era efficiente, ma nel complesso le leggi razziali interpretate come un gentile presente all'alleato germanico, ancorché, per scarsa serietà, applicate male, rappresentano l'ineludibile chiamata in correità per un crimine aberrante.
Enzo Collotti, uno dei massimi storici contemporaneisti italiani che si è occupato in particolare dello studio comparato dei totalitarismi europei, in occasione dell'uscita del suo libro Il fascismo e gli ebrei – Le leggi razziali in Italia edito da Laterza, parla di una distinzione netta tra la situazione tedesca e quella italiana. In Germania l'importanza dell'antisemitismo e del razzismo all'interno del regime nazista è molto più centrale rispetto a quella che avrebbe avuto nell'economia del fascismo italiano a partire dalle diverse tradizioni dell'antisemitismo fino ad arrivare alla collocazione sociale degli Ebrei che nel nostro Paese, a differenza della Germania, era di quasi totale assimilazione al resto della popolazione e, per la stragrande maggioranza, di appartenenza ad un ceto medio o medio-basso senza escludere un'ampia fascia di proletariato. Dietro l'esperienza tedesca c'era un'elaborazione teorica molto approfondita e una strategia di lungo periodo a cui corrispose un'applicazione puntuale dei provvedimenti che condussero alla soluzione finale. L'adozione delle leggi razziali in Italia, ribadisce Collotti, fu dettata invece da strumentalizzazioni di tipo politico che non portarono mai alla realizzazione di quegli eccessi che caratterizzarono non solo la Germania, ma anche altri Paesi occupati o collaborazionisti come la Francia.
L'obiettivo principale degli italiani era quindi compiacere l'alleato tedesco che, lungi dall'imporla, accolse con favore l'introduzione dei provvedimenti antisemiti. Lo spirito con cui il regime prese questa decisione ricorda da vicino quello che avrebbe avuto al momento dell'entrata in guerra: un mix di superficialità e calcolo. Come il governo italiano, avallato dalla monarchia, era convinto di prendere parte ad un conflitto di fatto già terminato e di trarne solo vantaggi, così nella questione delle leggi razziali rimase del tutto non curante dei reali effetti che provvedimenti così scellerati avrebbero potuto avere. La sostanziale sciatteria con cui le sanzioni contro la comunità ebraica vennero applicate non alleggerisce le gravi colpe che la casa regnate e il governo ebbero in questa vicenda.
Per la prima volta le leggi razziali revocavano l'emancipazione di una parte della popolazione non solo dal punto di vista giuridico, ma anche da quello sociale e culturale, il regime colpiva dei cittadini indipendentemente dalla loro opposizione politica ma solo per il fatto di esistere. L'antisemitismo di Stato, fomentato massicciamente dalla stampa, attecchiva in un Paese che aveva già vissuto l'esperienza del razzismo nei confronti delle popolazioni africane. Il precedente del razzismo coloniale agevolava in qualche modo il sentimento di razzismo antisemita, l'ebreo non era quindi perseguitato perché appartenente ad una religione ma era perseguitato in quanto tale.
Questo sentimento prese piede e sebbene, lo ricordo ancora, l'applicazione delle leggi razziali rimase generalmente superficiale, l'antisemitismo di Stato poté contare sulla collaborazione più o meno vasta di segmenti della società italiana ed ebbe sacche di tragica efficienza.
Annalisa Capristo nel suo libro L'espulsione degli Ebrei dalle accademie italiane edito da Silvio Zamorani, conduce un'analisi puntuale dell'epurazione antisemita all'interno delle accademie e delle università italiane. Il progetto di arianizzazione voluto dal ministro dell'Educazione nazionale Giuseppe Bottai partì con alcune rilevazioni già all'inizio del 1938, quando la svolta razzista del regime non era ancora ufficiale, e proseguì con un censimento condotto all'interno di scuole, università e accademie che aveva lo scopo di appurare quanti tra gli intellettuali fossero ebrei. Nel frattempo un regio decreto del 5 settembre 1938 stabiliva che i membri di razza ebraica delle varie istituzioni culturali cessassero di farne parte. L'epurazione può considerarsi conclusa già nei primi mesi del 1939. Le vittime del provvedimento furono 676. L'intero progetto fu portato a termine velocemente e con cura grazie anche all'appoggio che esso ebbe all'interno delle università da parte di dirigenti e docenti.
E' vero che l'esempio di quanto accadde nell'ambito dell'Istruzione rimase circoscritto e fu dovuto sostanzialmente all'impegno di uno come Bottai che più che razzista era efficiente, ma nel complesso le leggi razziali interpretate come un gentile presente all'alleato germanico, ancorché, per scarsa serietà, applicate male, rappresentano l'ineludibile chiamata in correità per un crimine aberrante.
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