La stretta di mano tra il primo ministro israeliano Ehud Olmert e il presidente del comitato esecutivo dell'Olp Mahmoud Abbas (Abu Mazen) con in mezzo il presidente americano Bush ricorda da vicino quella tra Yitzhak Rabin e Yasser Arafat nel 1993 alla Casa Bianca. Con la conferenza di Annapolis si è tornato a parlare di conflitto israeliano-palestinese. Era dal 2000, dal fallimento delle trattative di Camp David, dal rifiuto dell'offerta del presidente Barak da parte di Arafat, dall'inizio della seconda Intifada, che la Comunità internazionale guidata dagli Stati Uniti non prendeva in considerazione la questione, il momento in cui si è deciso di farlo, i soggetti convenuti, gli effetti che la conferenza avrà, aprono nuovi scenari per l'intero Medio Oriente.
Per Vali Nasr, docente di politica internazionale alla Tufts University in Massachusetts, uno dei massimi esperti di questioni mediorientali, intervistato dal Corriere della sera, la conferenza di Annapolis ha l'unico merito di aver rotto il ghiaccio e di aver fatto ripartire un processo fermo da molti anni, ciò non esclude che la strada per il raggiungimento di un accordo sarà lunga, in salita e disseminata di insidie.
Di fronte ai rappresentanti di 49 Stati (tra cui i Paesi della Lega araba, Arabia Saudita e Siria comprese, i membri del G8, la Cina, l'Australia e il Brasile), all'inviato in Medio Oriente Tony Blair, al segretario generale dell'Onu, ai presidenti di Banca mondiale e Fondo Monetario internazionale, Olmert e Abu Mazen, all'interno dell'Accademia Navale di Annapolis, a pochi chilometri da Washington, hanno firmato un testo che impegna Israele e Anp a negoziare la pace entro la fine del 2008.
Il testo dell'accordo non entra nel merito dei problemi sul tappeto ma mette a punto una stringente tabella di marcia. Il primo incontro bilaterale, dopo quelli di Washington, avverrà a Gerusalemme il 12 dicembre. Secondo le regole stabilite dal comitato di gestione, che assisterà le parti durante tutto il negoziato, i rappresentanti di Israele e Palestina continueranno a incontrarsi ogni due settimane. Il documento prevede una nuova centralità per la Road Map (il piano concordato il 30 aprile 2003 da Stati Uniti, Unione Europea, Onu e Russia), le parti infatti si impegnano ad adottarne i rispettivi obblighi (interruzione delle attività terroristiche per la Palestina, ridimensionamento degli insediamenti per Israele). L'obiettivo finale è la creazione di due Stati per due popoli.
Se l'esito a cui porterà l'accordo di Annapolis è tutt'altro che scontato in termini di realizzazione concreta di questo obiettivo finale, (sia a Gaza, controllata da Hamas, sia in Cisgiordania ci sono state manifestazioni di protesta contro l'accordo. Sul fronte israeliano il partito di destra Likud ha accusato Olmert di ciecità politica e ha invitato i partiti conservatori a togliere il sostegno al governo) la conferenza ha avuto indubbiamente, già nell'immediato alcuni effetti. La presenza al vertice della Siria, determinata dall'intervento dell'Unione Europea, dell'Arabia Saudita e dei Paesi della lega araba, molti dei quali non riconoscono Israele, rappresenta un fatto di straordinaria importanza. La Siria ha subordinato la normalizzazione dei rapporti con Israele al suo ritiro dai territori occupati compreso il Golan che le fu strappato nel 1967. Anche se la questione rimane di difficile soluzione (l'altopiano del Golan, pur avendo perso gran parte del suo valore strategico, rimane vitale per l'approvvigionamento idrico di Israele) è bastato che fosse inserita nel programma della conferenza per indurre Damasco alla partecipazione con la promessa che la trattativa inizierà a Mosca all'inizio del 2008.
La Siria è legata all'Iran da una solida alleanza militare e da intensi rapporti economici. L'appoggio congiunto poi di Damasco e di Teheran ai palestinesi di Hamas e ai libanesi sciiti di Hezbollah ha costituito e costituisce un grave problema per gli Stati Uniti e per la sicurezza di Israele. La disponibilità della Siria a discutere rappresenta quindi una straordinaria opportunità, non solo di contrastare l'espansione iraniana e di indebolire Hamas ed Hezbollah, ma di intervenire anche nella situazione di stallo in Libano e sulla questione della sicurezza irachena, scenari sui quali Damasco gioca un ruolo non irrelevante.
L'opportunità di arginare il potere iraniano che viene dalla Conferenza di Annapolis è tanto più concreta se si considera che l'Arabia Saudita, sunnita, ha un interesse pari se non superiore a quello degli Stati Uniti a contrastare la Repubblica islamica, sciita, degli Ayatollah.
Le prove tecniche per la costruzione di un fronte anti-iraniano sono un fatto fondamentale non solo dal punto di vista della strategia generale degli assetti di potere in Medio Oriente e contro il terrorismo ma anche segnatamente da quello della sicurezza di israele minacciata, direttamente e indirettamente, molto più dall'Iran che dalla Palestina. Teheran ha guardato alla conferenza di Annapolis con estrema attenzione, data anche la presenza di suoi importanti partner commerciali come Cina e Russia, e pensa alle contromosse. Ribadendo la sua posizione di non riconoscimento di Israele, ha convocato una conferenza a cui parteciperanno dieci gruppi radicali palestinesi primo tra tutti Hamas.
In ogni caso, al di là dell'argine da porre all'Iran, la questione del processo di pace tra Israele e Palestina resta tutta intatta. Il primo, essenziale nodo da sciogliere è quello del riconoscimento del carattere di Stato Ebraico ad Israele da parte dell'Anp e dei Paesi arabi, secondo quanto previsto dalla risoluzione 181 adottata dall'Assemblea generale dell'Onu il 29 novembre 1947. Questa è la condizione senza la quale non si potrà discutere di tutti gli altri spinosissimi problemi: del rientro dei profughi palestinesi, della spartizione di Gerusalemme, della restituzione di tutti i territori arabi (palestinesi, siriani e libanesi) occupati da Israele, della linea di confine, delle risorse idriche contese in Cisgiordania. Senza la realizzazione di questa condizione non ci sarà nessuna pace.
Annapolis ha certamente segnato un successo della Comunità internazionale ma adesso, tra le pur legittime e molto serie questioni strategiche generali e le esigenze di rilancio dell'immagine di una presidenza americana che vuole legare la conclusione del suo mandato alla ripresa del processo di pace, non bisogna dimenticare quello che è successo nel 1993. Ugo Tramballi qualche giorno fa su Il Sole 24 ore faceva riferimento all'esigenza di arrivare ad un accordo definitivo entro il 2008 per battere gli estremisti e i terroristi sul tempo. Temo ci sia da credergli.
Per Vali Nasr, docente di politica internazionale alla Tufts University in Massachusetts, uno dei massimi esperti di questioni mediorientali, intervistato dal Corriere della sera, la conferenza di Annapolis ha l'unico merito di aver rotto il ghiaccio e di aver fatto ripartire un processo fermo da molti anni, ciò non esclude che la strada per il raggiungimento di un accordo sarà lunga, in salita e disseminata di insidie.
Di fronte ai rappresentanti di 49 Stati (tra cui i Paesi della Lega araba, Arabia Saudita e Siria comprese, i membri del G8, la Cina, l'Australia e il Brasile), all'inviato in Medio Oriente Tony Blair, al segretario generale dell'Onu, ai presidenti di Banca mondiale e Fondo Monetario internazionale, Olmert e Abu Mazen, all'interno dell'Accademia Navale di Annapolis, a pochi chilometri da Washington, hanno firmato un testo che impegna Israele e Anp a negoziare la pace entro la fine del 2008.
Il testo dell'accordo non entra nel merito dei problemi sul tappeto ma mette a punto una stringente tabella di marcia. Il primo incontro bilaterale, dopo quelli di Washington, avverrà a Gerusalemme il 12 dicembre. Secondo le regole stabilite dal comitato di gestione, che assisterà le parti durante tutto il negoziato, i rappresentanti di Israele e Palestina continueranno a incontrarsi ogni due settimane. Il documento prevede una nuova centralità per la Road Map (il piano concordato il 30 aprile 2003 da Stati Uniti, Unione Europea, Onu e Russia), le parti infatti si impegnano ad adottarne i rispettivi obblighi (interruzione delle attività terroristiche per la Palestina, ridimensionamento degli insediamenti per Israele). L'obiettivo finale è la creazione di due Stati per due popoli.
Se l'esito a cui porterà l'accordo di Annapolis è tutt'altro che scontato in termini di realizzazione concreta di questo obiettivo finale, (sia a Gaza, controllata da Hamas, sia in Cisgiordania ci sono state manifestazioni di protesta contro l'accordo. Sul fronte israeliano il partito di destra Likud ha accusato Olmert di ciecità politica e ha invitato i partiti conservatori a togliere il sostegno al governo) la conferenza ha avuto indubbiamente, già nell'immediato alcuni effetti. La presenza al vertice della Siria, determinata dall'intervento dell'Unione Europea, dell'Arabia Saudita e dei Paesi della lega araba, molti dei quali non riconoscono Israele, rappresenta un fatto di straordinaria importanza. La Siria ha subordinato la normalizzazione dei rapporti con Israele al suo ritiro dai territori occupati compreso il Golan che le fu strappato nel 1967. Anche se la questione rimane di difficile soluzione (l'altopiano del Golan, pur avendo perso gran parte del suo valore strategico, rimane vitale per l'approvvigionamento idrico di Israele) è bastato che fosse inserita nel programma della conferenza per indurre Damasco alla partecipazione con la promessa che la trattativa inizierà a Mosca all'inizio del 2008.
La Siria è legata all'Iran da una solida alleanza militare e da intensi rapporti economici. L'appoggio congiunto poi di Damasco e di Teheran ai palestinesi di Hamas e ai libanesi sciiti di Hezbollah ha costituito e costituisce un grave problema per gli Stati Uniti e per la sicurezza di Israele. La disponibilità della Siria a discutere rappresenta quindi una straordinaria opportunità, non solo di contrastare l'espansione iraniana e di indebolire Hamas ed Hezbollah, ma di intervenire anche nella situazione di stallo in Libano e sulla questione della sicurezza irachena, scenari sui quali Damasco gioca un ruolo non irrelevante.
L'opportunità di arginare il potere iraniano che viene dalla Conferenza di Annapolis è tanto più concreta se si considera che l'Arabia Saudita, sunnita, ha un interesse pari se non superiore a quello degli Stati Uniti a contrastare la Repubblica islamica, sciita, degli Ayatollah.
Le prove tecniche per la costruzione di un fronte anti-iraniano sono un fatto fondamentale non solo dal punto di vista della strategia generale degli assetti di potere in Medio Oriente e contro il terrorismo ma anche segnatamente da quello della sicurezza di israele minacciata, direttamente e indirettamente, molto più dall'Iran che dalla Palestina. Teheran ha guardato alla conferenza di Annapolis con estrema attenzione, data anche la presenza di suoi importanti partner commerciali come Cina e Russia, e pensa alle contromosse. Ribadendo la sua posizione di non riconoscimento di Israele, ha convocato una conferenza a cui parteciperanno dieci gruppi radicali palestinesi primo tra tutti Hamas.
In ogni caso, al di là dell'argine da porre all'Iran, la questione del processo di pace tra Israele e Palestina resta tutta intatta. Il primo, essenziale nodo da sciogliere è quello del riconoscimento del carattere di Stato Ebraico ad Israele da parte dell'Anp e dei Paesi arabi, secondo quanto previsto dalla risoluzione 181 adottata dall'Assemblea generale dell'Onu il 29 novembre 1947. Questa è la condizione senza la quale non si potrà discutere di tutti gli altri spinosissimi problemi: del rientro dei profughi palestinesi, della spartizione di Gerusalemme, della restituzione di tutti i territori arabi (palestinesi, siriani e libanesi) occupati da Israele, della linea di confine, delle risorse idriche contese in Cisgiordania. Senza la realizzazione di questa condizione non ci sarà nessuna pace.
Annapolis ha certamente segnato un successo della Comunità internazionale ma adesso, tra le pur legittime e molto serie questioni strategiche generali e le esigenze di rilancio dell'immagine di una presidenza americana che vuole legare la conclusione del suo mandato alla ripresa del processo di pace, non bisogna dimenticare quello che è successo nel 1993. Ugo Tramballi qualche giorno fa su Il Sole 24 ore faceva riferimento all'esigenza di arrivare ad un accordo definitivo entro il 2008 per battere gli estremisti e i terroristi sul tempo. Temo ci sia da credergli.
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