venerdì 26 ottobre 2007

Ddl Levi: quella marcia indietro che fa riflettere

«La legge intende regolare il mercato dell’editoria e dunque si rivolge ai soli operatori del mercato, tutti quelli che professionalmente producono giornali, riviste, libri e dunque esclude, per definizione, i blog o i siti individuali. Il senso della legge, per quanto riguarda Internet, è quello di estendere ai giornali pubblicati sulla rete le regole per i giornali pubblicati sulla carta stampata. I blogger possono stare non tra due ma tra dieci guanciali».
Così il Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Ricardo Franco Levi in una intervista al Corriere della sera prima di presentarsi, mercoledì scorso, davanti alla Commissione Cultura della Camera e proporre un comma aggiuntivo all’articolo 7 del suo ddl di riforma del mercato dell’editoria. Il comma recita così “sono esclusi dall’obbligo di iscrizione al ROC i soggetti che accedono o operano su Internet per prodotti o siti ad uso personale e non ad uso collettivo che non costituiscano organizzazione imprenditoriale del lavoro”.
Dunque sembrerebbe risolta la vertenza tra il sottosegretario venuto dall’Uruguay e i blogger. Sembrerebbe.
Vediamo com’è iniziata la vicenda. Il 3 agosto il Sottosegretario Levi ha presentato all’attenzione del Governo un progetto di legge sulla riforma del mercato dell’editoria varato poi dal Consiglio dei ministri il 12 ottobre scorso. Il ddl nasconde pericolose reticenze e ambiguità. L’articolo 5 prevede che sia considerata “attività editoriale” la “realizzazione e distribuzione di prodotti editoriali anche in forma non imprenditoriale per finalità non lucrative” secondo l’articolo 2 è prodotto editoriale "qualsiasi prodotto contraddistinto da finalità di informazione, di formazione, di divulgazione, di intrattenimento, che sia destinato alla pubblicazione, quali che siano la forma nella quale esso è realizzato e il mezzo con il quale esso viene diffuso”, una definizione così formulata consente di considerare prodotti editoriali anche i blog o i siti personali. L’articolo 7 stabilisce poi che vi sia l’obbligo dell’iscrizione al Registro degli operatori della comunicazione (ROC) presso l’Autorità Garante, dei soggetti che svolgono attività editoriale su internet, il che comporterebbe non solo il pagamento di un bollo per i certificati necessari all’iscrizione, ma anche l’applicazione delle norme sui reati a mezzo stampa a tutti i cosiddetti prodotti editoriali.
Tanto è bastato per scatenare le ire dell’intera blogosfera italiana. Hanno iniziato Valentino Spataro su civile.it e Paolo De Andreis su Punto informatico che ha definito il ddl «un errore macroscopico, frutto di ostinata ignoranza», la grancassa l’ha suonata poi il solito Beppe Grillo che, con i toni apocalittici che gli sono propri, ha detto che il ddl Levi segnava la fine della rete in Italia. Mario Adinolfi, blogger, già candidato alla segreteria del Partito Democratico, ha chiesto l’abrogazione dell’articolo 7 e sostanziali emendamenti per gli articoli 2 e 5. Non è mancato chi ha accostato grossolanamente l’Italia alla Cina o alla Birmania, è scattata una petizione che ha raccolto migliaia di firme, la vicenda ha avuto eco anche sulla stampa internazionale. Mentre accadeva tutto questo Levi ha fatto una prima parziale marcia indietro ammettendo che la definizione di prodotto editoriale era ambigua e che doveva essere affidata alla Autorità Garante che però, nella persona di Nicola D’Angelo, commissario dell’Autorità TLC cui fa capo il ROC, lapidario ha affermato «Attenti o finirà che i blog si faranno dall'estero».
A questo punto sono entrati in gioco politici e ministri. Di Pietro ha detto che non avrebbe votato il ddl così com’è cascasse il governo, dichiarazioni simili da Rifondazione comunista, Rosa nel pugno, Verdi. Il ministro delle comunicazioni Gentiloni ha affermato che il testo del ddl è vago e apre a interpretazioni estensive. Il percorso è questo quindi, si approva un progetto di legge sulla riforma dell’editoria di soli 32 articoli, una ventina di pagine in tutto, leggendolo distrattamente, nella migliore delle ipotesi, salvo poi criticarlo dopo l’approvazione. Non fa una piega, soprattutto se a farlo è anche il ministro delle Comunicazioni competente in materia…
Quella del ddl Levi, così come licenziato dal Consiglio dei ministri, è una storia di ordinaria sciatteria politica nella quale un provvedimento, scritto male e letto peggio ci mette di fronte, oltre che a un discutibile modo di operare, anche all’incompetenza con cui la politica si rapporta alla rete, alle sue dinamiche e a chi vi opera.
L’emergenza è tutt’altro che passata e bisogna continuare a vigilare. Il comma aggiuntivo all’articolo 7 da solo non basta, deve essere accompagnato da ulteriori integrazioni in relazione alla definizione di attività e prodotto editoriale. L’obbligo di iscrizione al ROC deve essere limitato alle sole imprese editoriali in particolare a quelle che accedono alle provvidenze pubbliche, inoltre bisogna chiarire se ad esempio la presenza di annunci pubblicitari sul proprio sito personale ricada nella definizione di organizzazione imprenditoriale del lavoro.
La materia è delicata e complessa soprattutto perché è in gioco la libertà di espressione dei singoli e per questo non può essere lasciata all’improvvisazione. L’idea di una carta costituente per la rete, proposta dall’Internet Governance del professor Stefano Rodotà, che recepisca i principi già emanati a livello europeo, può essere una ottima occasione per introdurre qualche elemento di chiarezza. Nel frattempo non ci resta che tenere gli occhi ben aperti sull’iter parlamentare che il ddl Levi ha appena iniziato.

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